Nel nuovo scenario che Industria 4.0 aprirà il tema di un reddito di base universale è il primo argomento da discutere nell’agenda politica. Un reddito di base che, almeno in parte, potrebbe essere finanziato dai profitti portati dalla robotizzazione della produzione. (Scopri di più su: Sbilanciamoci.info)
L’introduzione della meccanizzazione e l’utilizzo delle fonti di energia non rinnovabili nel processo produttivo hanno costituito i due maggiori elementi di cambiamento delle società contemporanee, cioè quelle che vanno dalla rivoluzione industriale ad oggi. Cambiamenti che, partendo dalla sfera produttiva, hanno interessato non solo le relazioni puramente economiche e sociali (come ad esempio i rapporti fra capitale e lavoro), ma anche gli aspetti antropologici, urbanistici e culturali delle società moderne.

Se rispetto alle energie non rinnovabili il momento di rottura più importante è stato il passaggio dall’utilizzo della forza idraulica e di quella generata dal vapore all’utilizzo dell’elettricità prodotta dai combustibili fossili, molto più articolato è stato il progresso nel campo delle modalità produttive. Dai grandi stabilimenti tessili della prima rivoluzione industriale che vedono, per primi, l’introduzione della meccanizzazione, alla catena di montaggio volta alla produzione di massa standardizzata caratteristica della seconda rivoluzione industriale, si passa all’automazione della produzione nella terza rivoluzione industriale, grazie all’utilizzo congiunto di computer, software, macchinari, controlli in tempo reale e robotica, fino ad arrivare alla cosiddetta quarta rivoluzione industriale, o Industria 4.0, ossia un sistema produttivo in cui l’utilizzo della tecnologia rende sfumati i confini tra sfera fisica, biologica e digitale.

In particolare la quarta rivoluzione industriale dovrebbe rendere la manifattura, secondo una terminologia oramai abusata, intelligente, smart: l’industria 4.0 rappresenta, infatti, l’idealtipo produttivo capace di affermarsi sui mercati globali mediante l’innovazione digitale, che consente di accrescere continuamente la competitività grazie agli aumenti di produttività resi possibili dalla crescente sinergia fra dispositivi, esseri umani ed informazioni che fanno diminuire i costi di produzione.

Diverse sono le tecnologie ritenute abilitanti rispetto a questo scenario, come suggerito dall’Osservatorio Smart Manufacturing del Politecnico di Milano. Sul piano operativo vengono considerate tali quelle in grado di modificare radicalmente le routine produttive all’interno delle fabbriche, come ad esempio i processi di stampa 3D (Additive Manufacturing), che consentono di effettuare simulazioni virtuali prima di passare alla realizzazione fisica (ad esempio di una linea di produzione) e creare prototipi comprimendo costi di produzione e tempi di immissione dei nuovi prodotti nei mercati finali, prodotti direttamente destinati al mercato e pezzi di ricambio. Ci si riferisce, inoltre, a tutti i processi di produzione automatizzati (Advanced Automation) che, a differenza di quelli del passato, auto-apprendono ed interagiscono con l’ambiente e con gli operatori umani, e l’insieme di tutti i dispositivi indossabili e di interfaccia fra uomini e macchine (Advanced Human Machine Interface-HMI) che permettono il trasferimento e la condivisione di informazioni in tempo reale attraverso una molteplicità di canali (vocale, visuale, tattile). Tutti questi dispositivi e processi, vengono messi in rete nella cosiddetta Industrial Internet of Things (IIoT): macchine, dispositivi e sensori sono collegati in rete, contribuendo così a migliorare la competitività e la produttività aziendale grazie all’ottimizzazione, raccolta, immagazzinamento, scambio e diffusione dei dati. Al di fuori del momento puramente produttivo, inoltre, l’IIoT permette di collegare macchine e Big data, rendendo possibile l’analisi di enormi moli di dati per individuare legami tra fenomeni diversi e prevedere scenari futuri, facendo anche ricorso al Cloud e all’Edge computing. L’insieme di queste nuove abilità consentirà alle aziende di individuare le inefficienze, reagendovi quasi in tempo reale, come pure in tempo reale sarà possibile rispondere alle esigenze di partner commerciali e consumatori.

Il tema dell’Industria 4.0, o quarta rivoluzione industriale, o smart manufacturing viene sollevato per la prima volta nel 2011 in Germania, in occasione della Fiera industriale di Hannover. Un tipo di industria, quella proposta, fortemente automatizzata e che utilizza nuove tecnologie produttive volte al miglioramento degli standard lavorativi dei propri dipendenti e, soprattutto, ad aumentare la qualità dei beni prodotti e la produttività aziendale. Questi intenti si sostanziano nel progetto Industrie 4.0 del 2013 che influenzerà l’adozione dall’iniziativa europea Industry 4.0 (2015), dalla quale, a sua volta, prende spunto il “Piano nazionale Industria 4.0 2017-2020” presentato dal Governo Italiano nel settembre 2016. Il progetto tedesco, dal punto di vista teorico, fa riferimento all’approccio neo-evolutivo che considera il sistema di relazioni caratterizzanti le società della conoscenza fra università e centri di ricerca, il mondo dell’industria e le amministrazioni pubbliche. L’insieme dei rapporti co-evoluitivi fra questi soggetti si è sostanziato nella metafora della quadrupla elica, secondo cui le performance dei sistemi economici e sociali dipendono dalla relazione virtuosa fra università, imprenditoria, istituzioni pubbliche e cittadini. Il progetto tedesco, infatti, per la sua attuazione, prevedeva un massiccio intervento pubblico nella realizzazione di infrastrutture moderne (sia materiali che immateriali) e di sistemi energetici innovativi, come pure investimenti nella scuola, nella formazione, nella ricerca, e nell’ammodernamento del tessuto manifatturiero.

Seppur con un leggero ritardo rispetto alla Germania, il piano Industria 4.0 è stato adottato anche in Italia, accolto da critiche, nella maggior parte dei casi, positive. Il cosiddetto piano Calenda, articolato in direttrici chiave e di accompagnamento (le prime relative alle agevolazioni per gli investimenti innovativi e allo sviluppo di competenze specialistiche di digital manufacturing a partire dalla scuola, le seconde riguardanti le infrastrutture abilitanti e gli strumenti pubblici di supporto) rappresenta, in effetti, un momento importante per la realtà manifatturiera nazionale e, di rimando, per il sistema economico nel suo complesso. L’Italia è, infatti, la seconda manifattura europea, capace di generare il 20% circa della ricchezza del Paese. Tali dati, inoltre, ne sottostimano la portata, non tenendo conto di tutte le esternalizzazioni operate dal settore manifatturiero e dell’outsourcing ad esso collegato in termini di servizi. Al contempo, il nostro paese soffre a causa di uno sbilanciamento verso il settore manifatturiero a bassa intensità tecnologica, eredità delle specializzazioni tipiche dei distretti industriali, che, in generale, hanno privilegiato la competizione sui prezzi piuttosto che quella basata sull’innovazione. Tale eredità ha generato e continua a causare due tipi di criticità: da una parte la minor propensione all’innovazione del sistema industriale italiano ha un effetto diretto sulla competitività del settore manifatturiero; dall’altra essa ha un effetto inibente sulla crescita dei servizi ad alta intensità di conoscenza che potrebbero, anzi dovrebbero, affiancare, un settore industriale moderno ed innovativo. In letteratura, infatti, si è dimostrato empiricamente come, fra quelli europei, il sistema italiano sia uno di quelli con i livelli più bassi di integrazione verticale fra attività manifatturiere e servizi ad alta intensità di conoscenza.

Su questo sfondo il piano Industria 4.0 può aiutare a sdoganare il sistema manifatturiero italiano verso il futuro, aumentandone la capacità di innovazione e diminuendone i costi di produzione, accrescendone, quindi, la produttività e la capacità di competere sui mercati internazionali.

A fronte delle potenziali opportunità, riteniamo che il prossimo governo debba concentrarsi sulle criticità di questo modello produttivo, prima fra tutte la ricaduta sui livelli occupazionali. La sostituzione del lavoro umano con quello delle macchine e dei robot, infatti, se da una parte consente l’aumento della produttività, dall’altro provocherà inesorabilmente una caduta di occupazione, soprattutto di quella meno qualificata. A tal riguardo occorre ricordare che la forza lavoro manifatturiera è particolarmente rilevante nel nostro paese, continuando ad interessare il 16% circa degli occupati: una caduta di parte di questa occupazione non potrà che avere effetti nefasti sulla coesione sociale e sulla capacità di spesa delle famiglie italiane, con evidenti ripercussioni sulla crescita. Si può, certo, obbiettare che parte di quella manodopera potrà essere impiegata nella costruzione dei robot e dei macchinari che andranno a sostituire gli umani, almeno fino a quando i robot non impareranno a costruirsi da soli. Gli esuberi del settore manifatturiero potrebbero, inoltre, essere ricollocati, almeno in parte, nel settore dei servizi. Sorge, però, a tal riguardo, il problema che, almeno in Italia, tale ricollocazione ha riguardato principalmente i servizi a bassa intensità di conoscenza, più routinari, e con il minor impatto in termini salariali e sistemici. Al contempo, la migrazione verso i servizi ad alta intensità di conoscenza, ossia quelli in cui la concorrenza con le macchine mostra meno criticità, è ostacolata dal loro sviluppo ritardato, che, di conseguenza, ha limitato la crescita del relativo bacino di manodopera. Non a caso, secondo Eurostat, la percentuale di laureati fra la popolazione con età compresa fra i 30 e i 34 anni raggiunge solo il 26% in Italia, penultima fra i paesi UE, sensibilmente inferiore alla media europea, pari al 39%. Sulla base di queste evidenze, riteniamo che i cambiamenti che ci aspettano e che hanno già cominciato ad affacciarsi nelle nostre società, debbano essere guidati e gestiti politicamente, ripensando attivamente il lavoro, la formazione, i diritti dei lavoratori, il welfare e la cultura d’impresa.

Il processo di robotizzazione della manifattura implica l’affermarsi di un processo produttivo talmente capital intensive da rendere possibili incrementi di produzione senza dover incrementare i costi variabili. Un sistema produttivo, questo, caratterizzato da produttività in crescita, in cui i costi marginali tendono allo zero, ed in cui, di conseguenza, la forbice fra remunerazione del capitale (profitti) e remunerazione del lavoro (salari) si allarga a favore dei primi. Compressione dei salari e diminuzione della base occupazionale manifatturiera, barriere alla mobilità verso occupazioni terziarie avanzate o non routinarie, si ripercuoteranno sulla domanda aggregata, con inevitabili conseguenza sulla crescita.


Che Fare?
  • A nostro avviso, dunque, nel nuovo scenario dell’Industria 4.0, il tema del meno lavoro a fronte di un reddito di base universale è il primo argomento da discutere nell’agenda politica, reddito di base che, almeno in parte, potrebbe essere finanziato dai notevoli aumenti di profitto consentiti dalla robotizzazione della produzione. Solo con un reddito incondizionato, pagato su base individuale, senza test di lavoro è possibile consentire a coloro che sono intrappolati in lavori soggetti alla concorrenza dei robot o in lavori scarsamente remunerativi sotto il profilo economico o della soddisfazione personale, di riappropriarsi delle energie necessarie per intraprendere nuovi percorsi, affrancandoli dalla schiavitù dei bisogni di base che limitano il ventaglio di aspirazioni lavorative.
  • Accanto al reddito di base, andrebbe proposto un piano di ampio respiro a favore della manifattura di tipo tradizionale, tipica del Made in Italy, che riveste un ruolo centrale nel sistema economico nazionale. Se le politiche di accompagnamento dello sviluppo dell’Industria 4.0 sono necessarie per non soccombere alla competizione sui mercati internazionali, quelle per la manifattura di tipo tradizionale lo sono per la centralità e l’irripetibilità che le capacità e le abilità umane in essa rivestono. Anche l’Economia Circolare costituisce, a tal riguardo, un modello da incentivare e rafforzare, grazie al significativo uso di manodopera umana specializzata e non, necessaria, ad esempio, per la riparazione di alcuni tipi di manufatti.
  • La necessità di sviluppare le tipologie di competenze umane non soggette alla concorrenza dei robot, ossia quelle legate all’ideazione e alla creatività, implica il ripensamento del sistema educativo e formativo. Vanno rafforzati gli investimenti nella ricerca e nell’università, ricordando come, ad oggi, il numero di ricercatori in Germania sia più del triplo di quello degli italiani. Preparare i cittadini di domani, limitando l’abbandono scolastico sia prima che dopo l’età dell’obbligo, è una condizione ineludibile per il passaggio verso uno stadio maturo della società e dell’economia della conoscenza, dove, nelle fabbriche, ci saranno forse più tecnici ed ingegneri che operai. Altrettanto importante risulterà la capacità di fornire percorsi formativi finalizzati alla creazione e al disvelamento delle capacità artistiche ed artigianali, accentuandone ed evidenziandone ove possibile il radicamento territoriale.
  • Un ultimo punto dell’agenda politica riguarda la necessità di comprendere se gli strumenti a disposizione dei ricercatori per comprendere e monitorare il fenomeno dell’Industria 4.0 ed i suoi effetti siano idonei o meno, e, dunque, se i policy makers abbiamo o meno a disposizione dati affidabili su cui costruire politiche pertinenti rispetto ai cambiamenti attesi. Conosciamo qual è il livello di investimento dei vari settori produttivi in tecnologie informatiche, sappiamo come stanno cambiando le competenze richieste nei settori investiti dal processo di innovazione, o come i sistemi educativi si stiano attrezzando alla sfida 4.0? Saper rispondere a queste domande diventa centrale nel preparare la governance della quarta rivoluzione industriale.

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