L'articolo di questa settimana per la raccolta che stiamo curando in collaborazione con il Master Promotori del Dono dell'Università dell'Insubria, ci presenta un'interessante riflessione sulla comunicazione interpersonale non scritta. Ce ne parla il Prof. Marco Maria Pernich.

Di cosa parliamo quando parliamo di comunicazione? 
Domanda apparentemente oziosa naturalmente. Ma se la osserviamo più da vicino scopriamo che forse non è inutile porsela. Soprattutto quando scopriamo che oggi per comunicazione diamo per scontata quella informatica, ‘social’ e in certi ambiti quella istituzionale. 
Ma esiste una dimensione della comunicazione cui non facciamo mai caso perché ci viviamo immersi dentro e la diamo per scontata, ma che in realtà è ancora più  pervasiva di quella fatta attraverso i devices informatici e soprattutto è molto più determinante di quanto non pensiamo ai fini del conseguimento dei nostri scopi – nobili o meno nobili che essi siano. 
È quella che possiamo definire con termine forse un po’ lungo per i nostri standard abituali, ma che ha il vantaggio di essere completa, “comunicazione interpersonale non scritta". 

Siamo bravissimi con gli strumenti elettronici. Molto meno nella comunicazione interpersonale. Quelle tecniche e strategie che erano scontate per una cultura orale -  penso alla cultura ancora dell’inizio dell’altro secolo - oggi ci sono sconosciute. Ma poi con i colleghi di lavoro, i famigliari, gli amori e gli amanti, il panettiere e l’impiegato delle poste parliamo! 
Siamo sicuri che la nostra comunicazione sia efficace? Sento già quelli che dicono “cosa vuoi che ci voglia!”. Eppure la nostra comunicazione fallisce l'obiettivo: allora pensiamo sia colpa dell’altro che “Non ci ascolta”. Ne siamo sicuri? Siamo consapevoli di avere delle strategie comunicative? Quelli che in questo momento pensano “ma non è vero” oppure “ma non serve” semplicemente hanno una strategia inconscia cioè la più inefficace di tutte. 
Ma fortunatamente possiamo agire sulle nostre strategie e prima ancora sui nostri strumenti. L’unica necessità è vincere la pigrizia dell’abitudine. 

“Scambiare messaggi vincenti”1. È la migliore definizione di comunicazione che conosca. È del Professor Paolo Balboni. Ci dice tutto ciò che ci serve sapere e che quindi può orientare razionalmente il nostro studio di strumenti e strategie.
La comunicazione è uno scambio quindi si fa in due -ascolto (non solo della parte verbale) dell’altro e non pura azione unidirezionale; contiene una o più informazioni; è vincente quando arriva all’altro e quindi è comprensibile e non attiva meccanismi culturali o personali di difesa (parole o gesti tabuizzati). 
Sulla scorta di questa indicazione possiamo quindi studiare i nostri strumenti espressivi e comunicativi – il corpo (siamo prima visti e poi ascoltati e più visti che ascoltati!2), lo sguardo, la voce (il suono arriva prima del significato), le parole (quelle che ci hanno insegnato a scuola non servono per parlare: l’Italiano non esiste; esistono gli italiani; dobbiamo imparare a tradurre da una lingua scritta a una lingua orale). 
Possiamo poi studiare le nostre strategie comunicative e capire cosa è efficace e cosa no (c’è una componente generale ma ce n’è anche una, determinante, molto personale). 
Tutto questo si fonda su un processo di coscientizzazione molto preciso. 
A questo punto possiamo occuparci dell’altro: cosa dice davvero colui che mi parla? A chi parla davvero colui che mi parla? Domande che non ci facciamo mai ma che portano a scoperte sorprendenti. 

Di tutto questo mi occuperò nel workshop di comunicazione interpersonale non scritta all’interno del Master Promotori del Dono dell’Università dell’Insubria. Difficile? Sì – ma meno di quanto non sembri. Perché tutti gli strumenti sono antropologici: quindi non dobbiamo ‘imparare’: è sufficiente riscoprirli. 

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1 P. Balboni “Parole comuni. Culture Diverse” ed. Marsilio 
2 Ibidem

 

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