I passi in avanti fatti in aula al Senato sulla Riforma del Terzo Settore ci dicono che oggi si sta vivendo un momento davvero positivo per il mondo del sociale e per il rafforzamento della cultura dell’economia sociale. (Scopri di più su: http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=2252&Itemid=1)
Grazie alla riforma curata dal sottosegretario Bobba con l’apporto e la condivisione del mondo del Terzo Settore, infatti, finalmente viene conferito un ruolo centrale a chi opera nel terzo settore e soprattutto si interviene ridefinendo il ruolo di chi vi opera.

Non più solo una visione residuale o legata a predisposizioni filantropiche, ma finalmente una spinta ufficiale a favore dell’impresa e quindi dell’economia sociale intesa come quell’economia sostanziale identificata da Karl Polanyi negli anni ’80 e che faceva riferimento all’economia sana basata non su scambi di mercato (con la m minuscola), ma su scambi di Mercato (con la M maiuscola), e quindi da scambi pregni di relazioni sociali, alleanze tra soggetti, reciprocità, valorizzazione della terra e del tempo di lavoro oltre che di capitali[1]. È quello che qualcuno qualche decennio fa aveva definito economia solidale, comprendendo tutte le attività che contribuiscono alla democratizzazione dell’economia tramite l’impegno diretto dei cittadini, a partire da rapporti economici basati sui valori della socialità e del dono e che persegue l’obiettivo plurimo di creare occupazione, difendere l’ambiente, migliorare le condizioni di lavoro e conservare il legame con il territorio[2].

Con la riforma del Terzo Settore, finalmente le imprese sociali diventano una realtà e questo non può che attrarre le giovani menti, invogliarle a creare imprese sociali come vere realtà imprenditoriali che in maniera innovativa e con un approccio rigorosamente “bottom up” intendono contribuire al miglioramento della società, attraverso la produzione di beni e servizi di utilità sociale, destinando anche i propri utili al raggiungimento di obiettivi a beneficio della società. Le imprese sociali, anche in Italia come avviene in Francia o in Canada, diventano quindi realtà imprenditoriali che incrociano però la propria mission con quelle della sostenibilità, della giustizia sociale e dell’equita[3]. Inoltre, le imprese sociali hanno già dimostrato nel resto di Europa la loro resilienza anche durante la crisi, riuscendo a resistere e a rimanere sul mercato e in alcuni casi anche ad incrementare l’occupazione, e questo è vero anche in Italia se consideriamo il mondo della cooperazione sociale e i suoi dati anche negli anni post crisi economica del 2007 [4].

In tal senso sono convinta che questo nuovo approccio debba coinvolgere principalmente le realtà meridionali, in quanto territori di dimensione più ridotta rispetto alle grandi aree urbane del nord: le aree più povere e con un’occupazione più bassa dovrebbero essere i beneficiari naturali della creazione di imprese sociali. Seguendo l’ottica delle relazioni di reciprocità di Polayi già citata in precedenza, infatti, proprio laddove i rapporti sociali sono più forti, dove l’economia solidale e di prossimità è più diffusa e consolidata, la missione di porre il proprio operato a beneficio della collettività dovrebbe essere più radicata.

Le esperienze passate, realizzate in aree disagiate del mondo, ci dicono infatti che l’economia sociale produce ottimi risultati proprio in quelle aree in cui è presente una necessità economica imperante, che può riguardare la sussistenza dei membri come anche problemi di disoccupazione e di emarginazione. È successo così in America Latina, nelle economie emergenti asiatiche in cui è nato e si è diffuso lo strumento del microcredito ed è così anche in Italia: penso al lavoro dei Distretti di Economia Solidale, alle agenzie di turismo sostenibile e responsabile, alle piccole cooperative sociali che da anni lavorano per integrare soggetti svantaggiati creando vera e sana utilità sociale e di cui il Sud è ricco.

Una sfida quella dell’impresa sociale che per i giovani del Sud può divenire un modo per valorizzare il territorio, per dare un senso alla propria permanenza sul territorio mentre gli altri vanno via e farlo creando occupazione per se stessi e per gli altri.

Bibliografia:

[1] K. Polanyi, 1980 “ Economie primitive, antiche e moderne”, Einaudi, Torino.
[2] A. Saroldi, 2005 “Reti e pratiche di economie solidale”, EMI, Bologna.
[3] S. Markey, M. Roseland, 2016 “Scaling UP: the convergence of social economy and suistanability”, Athabascia University Press.
[4] Euricse, 2011.

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