Con il 2x1000 previsto nella legge di stabilità 2016 per la prima volta le associazioni culturali potranno beneficiare della scelta dei privati cittadini su come utilizzare parte delle imposte sul reddito. (Scopri di più su: http://www.ilgiornaledellefondazioni.com/content/quali-risorse-il-no-profit-dal-2x1000-un-segnale-ma-ancora-c%E2%80%99%C3%A8-molto-da-fare)
  • Francesco Mannino
Insieme al Decreto MiBACT sul recupero di beni non fruibili e sulla recente iniziativa che destina 150 milioni di euro a luoghi da recuperare o in cui organizzare 'progetti culturali', tira un vento di apertura nei confronti del ruolo delle no profit, nell'anno della riforma del Terzo Settore. Con ancora importanti criticità che vanno risolte e superate grazie ad una visione nuova di cosa il comparto possa significare per la coesione sociale del Paese.

Con la LEGGE 28 dicembre 2015, n. 208 (legge di stabilità 2016) il Governo ha stabilito (comma 985, Art. 1) che per l'anno finanziario 2016, con riferimento al precedente periodo d'imposta, ciascun contribuente potrà destinare il due per mille della propria imposta sul reddito delle persone fisiche a favore di un'associazione culturale iscritta in un apposito elenco istituito presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. A tale fine la legge destina la spesa di 100 milioni di euro per l'anno 2016. Le associazioni hanno avuto tempo fino all’11 aprile per candidarsi, compilando un modulo sul sito del MiBACT. I criteri individuati dall’apposito decreto per l'accreditamento delle associazioni hanno richiesto alle stesse di vedere indicata nel proprio statuto “la finalità di svolgere e/o promuovere attività culturali” e di operare in tal senso da almeno cinque anni, nonché di redigere e allegare “una relazione sintetica descrittiva dell’attività”. L'elenco dei candidati è stato pubblicato il 30 aprile, ed entro il 31 maggio sarà resa pubblica la lista definitiva degli ammessi al contributo. Un po' tardi, se si considera che molti contribuenti stanno già presentando la dichiarazione dei redditi. La prima lista comprende 1300 candidate, dalle piccole associazioni locali al Touring Club Italiano, dalle associazioni musicali all’Unione nazionale delle pro loco italiane (UNPLI). Tutti in lizza per la prima volta sulla quota di imposta sul reddito finora destinata solo ai partiti politici, che dovranno contendere la scelta dei contribuenti con la galassia del no profit associativo: una “sfida” interessante, se si considera che nel passato anno fiscale solo il 2,7% dei contribuenti donò il proprio 2x1000 ai partiti. Certo è che, concessa l'attenuante della “prima volta”, e assodata la bontà della decisione governativa, negli anni a venire le procedure andranno anticipate, così da dare il tempo alle associazioni di candidarsi e ai contribuenti di essere informati, informarsi e scegliere senza fretta.

La scelta del Governo conferma comunque una rinnovata attenzione rivolta al Terzo Settore ed in particolare alle associazioni culturali, nell'anno del disegno di legge per la riforma del comparto, licenziato dal Senato il 30 marzo scorso e destinato a mettere ordine alla confusione normativa che regna ad oggi sul tema (si veda su questo l’articolo di Francesco Florian sul numero di aprile de Il Giornale delle Fondazioni). Tra i segnali che hanno interessato le no profit va inoltre segnalato il Decreto Franceschini sulla concessione di beni immobili del demanio culturale dello Stato non aperti alla fruizione pubblica o non adeguatamente valorizzati. L’affidamento riguarderà beni individuati da uffici periferici del MiBACT e sarà riservato ad associazioni e fondazioni non lucrative che si dedicano alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale e che abbiano una significativa e comprovabile esperienza nel settore (almeno 5 anni). La concessione potrà durare tra i sei e i dieci anni, ed essere estesa fino a diciannove laddove si dovessero realizzare interventi di restauro particolarmente complessi e onerosi. Saranno oggetto di valutazione ai fini della concessione il progetto di restauro e di conservazione, il programma di fruizione da parte del pubblico e l’ammontare del canone proposto. Certo è interessante il sistema di detrazione del canone dall'investimento dell’assegnatario destinato al restauro (Art. 4), ma rimane da capire come dovranno fare le no profit ad ottenere preventivamente importanti somme di denaro per procedere ai lavori necessari, se non ricorrendo ad onerosi prestiti bancari.

A questa misura si aggiunge il più recente annuncio del capo del Governo di dedicare la somma complessiva di 150 milioni di euro (il 15% di quel miliardo decretato con il CIPE per il patrimonio culturale italiano) a un luogo pubblico da recuperare, ristrutturare o reinventare per il bene della collettività o un progetto culturale da finanziare: tutti gli interessati avranno tempo di candidare le proprie proposte fino al 31 maggio, mediante l'indirizzo mail bellezza@governo.it. Una commissione ad hoc stabilirà a quali progetti assegnare le risorse. Il relativo decreto di stanziamento sarà emanato il 10 agosto 2016. In questo caso non sono esplicitati né i criteri di elaborazione delle proposte, né le caratteristiche che dovranno avere i proponenti e soprattutto i criteri di valutazione dei risultati attesi, a fronte di uno dei finanziamenti pubblici più cospicui degli ultimi anni (di sempre?) per “progetti culturali”. Resta l'interesse per l'azione e per il tema sinteticamente riassunto nell’avviso.

Dal quadro appena descritto emerge una rinnovata apertura al mondo delle associazioni culturali che si occupano di patrimonio culturale, materiale ed immateriale, della sua tutela e della sua gestione. Ma in questa fase di transizione verso la nuova legge per il Terzo Settore, e più in generale visto il contesto in cui operano questo tipo di organizzazioni, risaltano alcune criticità con cui è inevitabile fare i conti.

A monte di tutto emerge la ormai cogente questione riguardante che cosa sia possibile fare (o meno) nei luoghi della cultura per una organizzazione no profit. In bilico tra “servizi strumentali” e “servizi aggiuntivi” (Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, DL 42/2004, Artt. 112 e 117), tra attività più o meno commerciali (Testo Unico delle Imposte sul Reddito) e Codice degli Appalti, le associazioni culturali vivono un senso di perenne incertezza e di paventato pericolo allorquando volessero semplicemente contribuire alla migliore e maggiore fruizione del proprio patrimonio culturale, senza finalità lucrative eppure riuscendo magari a remunerare i fattori produttivi (ma con la consapevolezza che quest'ultimo è davvero un obiettivo ambizioso). E tenendosi invece salda la convinzione che riuscire ad ridimensionare o addirittura abbattere le diverse barriere che spesso separano il patrimonio dalle comunità di riferimento, già sarebbe il più alto e pieno contributo che una no profit culturale può dare ai propri territori. Servizi commerciali? Attività istituzionali? Qui il terreno si fa accidentato e disseminato di rischi incombenti, se i partecipanti alle attività sono “terzi” (e non soci dell’organizzazione) e se magari contribuiscono loro (e non lo Stato) a sostenere parzialmente le attività della no profit. Resta il fatto che tali attività, spesso esercitate con passione, professionalità e abnegazione, sostituiscono lo Stato in funzioni che sembrano sempre meno residuali, e d'altronde sempre più utili a quel disegno di coesione sociale che gli indirizzi generali di governance (nazionale e sovranazionale) sembrano individuare come indispensabile per il futuro delle nostre società.

Accade infatti di incontrare sempre più frequentemente iniziative disseminate sui territori, anche lontane da quei fulcri caldi delle industrie culturali e creative o dai “grandi attrattori” del turismo culturale. Iniziative portate avanti da organizzazioni che innanzitutto rappresentano pezzi della propria comunità, e che soprattutto vogliono strappare pezzi del proprio patrimonio al degrado o ad usi incivili maturati nel tempo, o che intendono realizzare attività culturali inclusive. Tutte iniziative che, più che sfruttare il famigerato nuovo petrolio italiano, producono una ricchezza sociale ineguagliabile: dal teatro sociale in provincia di Napoli al coworking in provincia di Padova, dall’ecomuseo in periferia a Palermo al centro culturale inclusivo in provincia di Agrigento, esse contribuiscono a creare stimoli e opportunità culturali dove non ne esistevano, portare la cultura come strumento di socialità e la memoria come uno dei pilastri per costruire futuri solidali e coesi. “Imprese” culturali che magari non producono troppi punti PIL, ma occupazione qualificata, riduzione dei costi sociali prodotti dall’emarginazione e dall’inaccessibilità, educazione informale, socialità. Un po’ come la scuola, in fondo: di cui non ci chiediamo mai se sia sostenibile economicamente o meno.

Per questa galassia di energie, socialmente rilevanti e no profit nelle intenzioni e nei fatti, welfare delegato e sostitutivo a tutti gli effetti, è sufficiente il 2x1000 dei contribuenti, un bando che gli permette di provare a valorizzare beni che altri individueranno, o una opportunità una tantum di vedere finanziato un progetto culturale? Si badi bene, tutte iniziative lodevoli e importanti, ma forse solo parzialmente sufficienti ad intervenire su un tessuto che ha bisogno prevalentemente di almeno quatto cose: certamente di risorse economiche per potere avviare o co-gestire una attività che possa produrre impatti sociali nel territorio di riferimento; di non essere più considerate belle “iniziative della domenica”, magari lodate con una stretta di mano per poi essere archiviate come marginalità ininfluenti, amatoriali e improvvisate; una ricollocazione del loro ruolo nell’agenda dello Stato, che le sottragga ad una condizione di residualità e invece conferendo loro la centralità strategica di motore sociale, che ormai è nei fatti ma per nulla nel diritto; e appunto una normativa chiara che non li tenga in costante senso di pericolo. Legittimazione, ascolto, risorse adeguate, rinegoziazione del loro ruolo in chiave strategica: il mix indispensabile che consentirebbe a molte organizzazioni culturali no profit di potere contribuire adeguatamente alla crescita culturale e sociale del Paese, ridimensionando le criticità e valorizzando professionalità ed energie, finalmente nel pieno riconoscimento di un welfare delegato sì, ma sempre più indispensabile. Indispensabile come la scuola, appunto.

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