La cura condivisa dei beni comuni può essere un fattore di sviluppo economico. (http://www.labsus.org/2015/01/sussidiarieta-puo-dare-lavoro-e-produrre-sviluppo/)

Gregorio Arena

Applicando la sussidiarietà per recuperare l’1 per mille degli edifici abbandonati si produrrebbero 75 mila nuovi posti di lavoro.

La sussidiarietà può produrre lavoro e sviluppo economico? Certamente si, più di quanto si immagini. E non solo in tempi medio-lunghi, ma anche in tempi relativamente brevi.

Ci sono vari modi in cui “le autonome iniziative dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (art. 118, ultimo comma della Costituzione) possono creare nuove occasioni di lavoro e di sviluppo economico. Qui se ne esamineranno un paio, ma sicuramente ce ne sono altri.

Per capire come la sussidiarietà possa essere un fattore di sviluppo bisogna partire dall’interpretazione che noi di Labsus diamo del concetto di“interesse generale”.


Interesse generale e cura dei beni comuni

Interesse generale, così come bene comune sono concetti astratti, difficili da spiegare. Ma tutto diventa più comprensibile se per “attività di interesse generale” si intendono, come noi facciamo da tempo, le “attività di cura dei beni comuni”.

Non è una interpretazione arbitraria, anzi, perché come dicevamo in un editoriale del 2011, la cura dei beni comuni realizzata dai cittadini attivi ha come principale obiettivo la realizzazione di condizioni della vita sociale tali da permettere alle persone di realizzare il proprio pieno sviluppo. E questa è sicuramente un’attività di interesse generale, tant’è vero che la Costituzione affida alla “Repubblica” (cioè all’insieme dei poteri pubblici) il compito di “rimuovere gli ostacoli… che impediscono il pieno sviluppo della persona” (art. 3, 2° comma Costituzione).

Fra gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona c’è anche il degrado dei beni comuni, materiali e immateriali, poiché dalla qualità dei beni comuni dipende la qualità delle nostre vite. E quindi prendersi cura dei beni comuni equivale a prendersi cura, sia pure indirettamente, delle persone che di quei beni possono usufruire e quindi delle loro possibilità di sviluppo come individui.


Condivisione di responsabilità e di risorse

Questo ragionamento in apparenza astratto serve invece ad individuare il primo e forse più importante modo in cui le attività di cura dei beni comuni svolte dai cittadini insieme con le amministrazioni sono un fattore di sviluppo economico. Come più volte abbiamo scritto in questa Rivista, quando gli abitanti di un paese o di un quartiere cittadino autonomamente si assumono la responsabilità di curare un vicolo, una piazza, un bene culturale, etc. essi mettono in campo risorse e capacità di ogni genere: tempo, competenze professionali, esperienze, strumenti di lavoro, soldi, mezzi di trasporto, relazioni sociali….

I cittadini che decidono di diventare, almeno per un po’ di tempo, cittadini attivi insieme con altri come loro, da un lato condividono con l’amministrazione pubblica la responsabilità della cura di certi beni, dall’altro con gli altri cittadini attivi condividono invece risorse private per la cura di beni che sono per definizione condivisi.


Condividere le relazioni per il bene comune

E, fra queste risorse private, essi condividono delle risorse preziose, che noi italiani in genere usiamo solo a vantaggio della nostra cerchia familiare(più o meno ampia), cioè le relazioni sociali, i rapporti di amicizia e di vicinato. I cittadini attivi usano le proprie relazioni per prendersi cura di beni che sono di tutti e di cui tutti, anche coloro che non partecipano alla cura di quei beni e che dunque non condividono nulla, possono godere.

Tutto questo ha un enorme valore, che va molto al di là dell’effetto positivo sul miglioramento della qualità dei beni comuni di cui quei cittadini potranno godere grazie al loro intervento, che pure è essenziale per la qualità delle loro vite. Perché questa loro attività al tempo stesso interessata (migliorare la qualità dei beni comuni per vivere meglio) e solidale (farlo pur sapendo che altri che non si sono attivati godranno del risultato) ha un effetto fondamentale nel rinsaldare i legami della comunità, sviluppando rapporti reciproci fondati sulla fiducia e producendo capitale sociale, che a sua volta è un fattore di sviluppo economico.

Del resto il ruolo del capitale sociale per lo sviluppo di un territorio è talmente cruciale che, come notava recentemente Michele Mosca: “Le organizzazioni criminali, per raggiungere i propri obiettivi, si impossessano di un input strategico, il capitale sociale, la cui dotazione ed accumulazione è fondamentale per lo sviluppo economico e civile dei territori. Esse, infatti, deviano per i propri fini il capitale sociale distorcendone le caratteristiche, rendendolo bonding, vale a dire chiuso … Il capitale sociale costituisce un input fondamentale per lo sviluppo dei territori e se ne richiede l’accrescimento, il rafforzamento ma soprattutto la sua ri-generazione e ri-appropriazione proprio dove è più forte e incontrastata l’azione delle mafie”.


Sei milioni di beni non usati o sottoutilizzati

Produrre e rigenerare il capitale sociale è il primo modo con cui la cura condivisa dei beni comuni produce, sia pure indirettamente, occasioni di lavoro e di sviluppo. Ma ci sono anche modi più diretti, come racconta Giovanni Campagnoli nel suo libro Riusiamo l’Italia. In Italia ci sono oltre sei milioni di beni non usati o sottoutilizzati: immobili pubblici e privati, capannoni industriali, scuole, asili, edifici ecclesiastici, seminari, monasteri, cinema, teatri, edifici comunali, beni confiscati alle organizzazioni criminali, paesi abbandonati dagli abitanti… e molti altri ancora.

Come dice Campagnoli, siamo “pieni di spazi vuoti” che “sono veri e propri beni comuni che possono rappresentare una piccola, ma significativa misura anticiclica perché producono occupazione giovanile, risorse economiche, socialità, cultura, aggregazione, sviluppo locale”. Secondo i suoi calcoli, se anche soltanto l’1 per mille di questi immobili abbandonati fosse recuperato per svolgervi attività economiche nell’ambito del welfare, della formazione, del turismo, della green economy, etc. si produrrebbero 73mila posti di lavoro (molti più degli occupati della Fiat in Italia), con un contributo al calo dell’occupazione del 4,8 per cento!


Se la politica capisse…

Il calcolo fatto riguarda il recupero di soltanto l’1 per mille di tutti questi edifici abbandonati. Basta questo dato per capire che se questo tipo di intervento diventasse una vera e propria “politica” delle amministrazioni locali, magari prevedendo nelle giunte comunali una delega specifica, gli effetti in termini di occasioni di lavoro e di sviluppo dei territori potrebbero essere straordinari.

Manca la capacità della politica di capire che gli “spazi vuoti” sono invece spazi potenzialmente pieni di opportunità, basta saperle cogliere. Peccato, perché invece ci sono già le altre due condizioni essenziali per trasformare il nostro patrimonio edilizio abbandonato in un fattore di sviluppo.


Le condizioni ci sono

Innanzitutto, ci sono le energie, come dimostrano le belle esperienze descritte nel sito www.riusiamolitalia.it. C’è un’Italia che si è già mobilitata per recuperare edifici inutilizzati o sottoutilizzati, spesso facendo acrobazie per superare gli ostacoli di ogni genere che le nostre burocrazie sono bravissime a frapporre a chiunque voglia innovare e intraprendere.
Il riferimento agli ostacoli burocratici rinvia immediatamente alla seconda condizione essenziale affinché il recupero degli edifici abbandonati possa diventare un fattore di sviluppo sostanziale, non marginale, cioè l’esistenza di un quadro giuridico di riferimento.

Oggi, come i nostri lettori sanno bene, questo quadro giuridico esiste ed è il Regolamento sull’amministrazione condivisa adottato da 20 comuni e in corso di adozione da parte di altri 44. Nel Regolamento, non a caso, c’è uno specifico Capo IV dedicato agli Interventi di cura e rigenerazione di edifici, che disciplina in maniera specifica in primo luogo l’individuazione degli edifici (art. 16) e in secondo luogo la loro gestione condivisa (art. 17).

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