Il tradizionale concetto dell’istruzione come bene pubblico deve lasciare spazio all’affermazione di nuove forme e modalità di governance che favoriscano il pieno e reale sviluppo delle persone e delle comunità, basato sul riconoscimento dell’educazione come impegno sociale e comune. (Scopri di più su: http://www.labsus.org/2016/03/istruzione-come-bene-pubblico-educazione-come-bene-comune/)

Rita Locatelli

Negli ultimi vent’anni si è assistito ad un’espansione senza precedenti dei sistemi scolastici a livello mondiale. Specialmente nei paesi del sud del mondo, questo è stato reso possibile grazie all’adozione di politiche internazionali che hanno promosso e incentivato la scolarizzazione universale, affinché tutti i bambini, almeno in età scolare, ricevessero un’istruzione gratuita e obbligatoria (si pensi tal proposito agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio e al movimento Educazione per Tutti).

Tuttavia, il tradizionale modello scolastico è attualmente messo in discussione da almeno due fattori. Da un lato, le crescenti richieste di riduzione della spesa pubblica e la crisi del modello di welfare state occidentale hanno comportato un più ampio coinvolgimento di attori non-statali, con un conseguente indebolimento della capacità di numerosi Stati-nazione di elaborare politiche pubbliche efficaci.

A questo problema di risorse si è aggiunta in modo sempre più marcata la necessità di superare il sistema educativo basato sulla mera trasmissione/acquisizione di conoscenze, al fine di rendere l’educazione più pertinente e rilevante ai diversi contesti in termini di metodo e di contenuto. I cambiamenti in atto nel mondo sono infatti caratterizzati da nuovi livelli di contraddizione e complessità ai qualiil sistema dell’istruzione è chiamato a rispondere.

Come ricordano Cau, Barrilà e Maino nel loro recente articolo, “i cambiamenti nella e della scuola sono già in corso e sono strettamente connessi alle grandi trasformazioni che stanno interessando in questi anni la società nel suo complesso”. Queste tensioni rendono pertanto necessario un ripensamento sia delle modalità in cui l’educazione è organizzata, sia degli obiettivi che essa si prefigge. Il tradizionale concetto dell’istruzione come bene pubblico deve pertanto lasciare spazio all’affermazione di nuove forme e modalità di governance che favoriscano il pieno e reale sviluppo delle persone e delle comunità, basato sul riconoscimento dell’educazione come impegno sociale e comune.


Il concetto dei beni comuni applicato all’educazione

Diversamente dai beni pubblici, che si rifanno a un ruolo principale dello Stato nell’erogazione e nel finanziamento di servizi, e il cui processo di produzione risulta altamente istituzionalizzato e verticistico, i beni comuni si distinguono sia per finalità sia per forma di governo.

Nonostante vengano considerati beni comuni principalmente quei beni/risorse naturali o della conoscenza che necessitano di essere governati in modo alternativo alla gestione pubblica o privata (in inglese riferiti con il termine commons), ritengo interessante analizzare l’applicazione di questa categoria al campo dell’educazione e in particolar modo dell’istruzione dell’obbligo, ambito tradizionalmente istituzionalizzato e verticistico.

L’etimologia della parola educazione (dal latino e-ducàre: trarre da, tirare fuori) indica un processo necessariamente relazionale, che dovrebbe consentire il pieno sviluppo dell’essere umano nella consapevolezza della propria libertà e quindi responsabilità. Occorre sottolineare che l’istituzione scolastica è frutto solo dei secoli più recenti e che il processo educativo è spesso avvenuto nella società indipendentemente da qualsiasi intervento istituzionale. Tuttavia, ben lontano da qualsiasi concezione di auto-governo (si pensi a tal proposito alle visioni di Ivan Illich, Paul Goodman o Paulo Freire) e tenendo ben presenti le caratteristiche e le criticità delle attuali realtà istituzionali, la categoria dei beni comuni potrebbe costituire una valida alternativa e un quadro di riferimento innovativo per la governance democratica dell’educazione in questo contesto in cambiamento. Ciò è tanto più necessario specialmente se si considera lo ‘sfumare’ dei confini tra il pubblico e il privato e l’emergere di forme miste o ibride che promuovono concezionidell’educazione come un bene privato o commercializzabile.[1]


Sussidiarietà, partecipazione e democrazia

Il concetto dei beni comuni promuove l’adozione di nuove forme di partecipazione diretta basate sul principio di sussidiarietà, la cui connotazione di dinamica verticale si estende per includere esercizi orizzontali e trasversali di autorità, caratterizzati dalla condivisione di funzioni.

Questa prospettiva si fonda sulla convinzione che ognuno ha la facoltà di ‘prendersi cura’ dell’educazione come bene comune – studenti, famiglie, insegnanti, educatori, società civile, settore privato – e che questo processo partecipativo rappresenta di per sé un bene comune.

Ai diversi livelli del processo educativo, l’approccio partecipativo, proprio del principio di sussidiarietà orizzontale, si basa sulla condivisione di valori e di obiettivi, e promuove l’implementazione di processi di co-partecipazione e di integrazione di responsabilità, di rischi e di risorse (umane ed economiche). Ai fini dell’interesse generale è infatti ampiamente dimostrato che la ‘cooperazione’, fondata su valori di solidarietà, uguaglianza, giustizia sociale, sia più conveniente rispetto a forme utilitaristiche di competizione.

In questa prospettiva gli attori privati (siano essi for profit o non, o civili) non risulterebbero più meri prestatori di lavoro o erogatori di servizi, bensì si qualificherebbero come componenti attivi nel processo di sviluppo delle politiche educative. La democrazia diventa pertanto sostanziale perché, oltre a basarsi sull’espressione di un voto, può fondarsi su di un’effettiva partecipazione di tutte le componenti della società al processo educativo. In questo senso, porre i beni comuni oltre la dicotomia pubblico-privato significa aspirare verso nuove forme e istituzioni di democrazia partecipativa, ripensando e superando le consolidate categorie gerarchiche di struttura sociale.


Oltre l’utilitarismo e l’individualismo

La nozione dei beni comuni indica altresì che l’educazione incorpora una comprensione comune del suo valore, fondata in specifici contesti sociali e culturali. In questo senso, non è soltanto il benessere degli individui che conta, ma anche la bontà della vita che gli esseri umani hanno in comune.

Questa visione enfatizza la dimensione collettiva del processo educativo e la concezione dell’educazione come un impegno sociale condiviso. La relazione risulta alla base di qualsiasi processo di ‘produzione’ o di ‘fruizione’ del bene in questione. Il concetto di educazione come bene comune mette pertanto in discussione il modello utilitaristico che concepisce l’educazione principalmente come un investimento socio-economico individuale, per favorire invece l’approccio umanistico, che pone al centro la persona e le sue connessioni con la comunità.

Ai diversi livelli del sistema educativo, ciò implica che diverse forme di educazione, siano esse formali o non-formali, si arricchiscano reciprocamente dando spazio e rappresentanza ai diversi gruppi presenti nella società. L’educazione diviene pertanto il risultato di un processo di co-produzione tra il pubblico e le altre componenti della società. L’obiettivo è introdurre ed estendere pratiche di innovazione in grado di generare nuovi scenari e nuove forme di cooperazione sociale e di coesistenza.


L’educazione e la scuola come beni comuni: l’esempio italiano

Il principio dell’educazione come bene comune è alla base di un ripensamento dell’istituzione scolastica intesa essa stessa come un bene comune. In Italia, la possibilità di introdurre la prospettiva dei beni comuni è resa possibile dalla nostra stessa Costituzione.

All’articolo 2, essa riserva un’attenzione particolare alle formazioni sociali e richiama, quali doveri inderogabili, i principi di solidarietà politica, economica e sociale. Inoltre, il riferimento nell’art. 32 alla salute come diritto dell’individuo ma anche come interesse della collettività può considerarsi valido anche per l’ambito dell’educazione, nel senso che è senz’altro nell’interesse della collettività che la popolazione sia educata, cioè libera e responsabile.

Concretamente, la Costituzione prevede la possibilità che lo Stato adotti un ruolo di facilitatore, favorendo “l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” (art. 118).

Sul territorio nazionale, gli esempi che danno concretezza a questo concetto sono numerosi. Scuole Aperte, il progetto promosso dal Ministero dell’Istruzione in collaborazione con ANCI e VITA, si pone l’obiettivo “di censire tutte le esperienze di Scuola Aperta in Italia”, intendendo con questo termine tutte quelle esperienze, sociali e solidali di sussidiarietà, di apertura della scuola a studenti e famiglie, ai quartieri e al territorio.

Le iniziative spaziano dall’organizzazione di laboratori o di progetti didattici in orario scolastico ed extrascolastico alla manutenzione dei cortili, degli spazi verdi e delle strutture di gioco, o ancora alla realizzazione di incontri aperti alla cittadinanza per affrontare temi di particolare interesse o rilievo. Un esempio di cura del bene comune ‘scuola’ da parte dei cittadini è rappresentato sicuramente dall’esperienza della scuola di Donato (Roma, quartiere Esquilino). In questa struttura è in atto da più di dieci anni una sperimentazione dell’Associazione dei Genitori che ha reso possibile la riqualificazione dell’istituto, promuovendo percorsi di integrazione e coesione sociale nel rispetto e valorizzazione delle diversità. Tutti questi esempi indicano la possibilità di come la scuola possa costituire da un lato un bene sicuramente pubblico e dall’altro trasformarsi e realizzarsi anche come bene comune.


Scuola italiana dei beni comuni

L’educazione può diventare un bene comune se la comunità decide di ‘prendersene cura’, promuovendo un cambiamento culturale nella gestione e nelle finalità dei sistemi educativi. Essa costituisce altresì la base per qualsiasi attivazione in favore della cura dei beni comuni, frutto di una scelta responsabile perché libera.

La Scuola Italiana dei Beni Comuni si prefigge proprio l’obiettivo di formare cittadini esperti per la cura dei beni comuni. Ciò è necessario affinché vengano adottate alternative costruttive e creative, in risposta alle sfide che emergono dalla crisi dell’attuale modello sociale ed economico.

Il principio dell’educazione come bene comune non propone tuttavia percorsi semplici. Introduce piuttosto elementi ‘sfidanti’ rispetto a consuetudini operative fortemente consolidate, sollecitando profonde revisioni degli equilibri sociali esistenti al fine di riattivare capacità, innovare e ripensare sostanzialmente il sistema di welfare.[2]Per raggiungere questo risultato è fondamentale che il funzionamento organizzativo sia trasparente e che vengano messi in campo strumenti rigorosi di valutazione.

Per queste ragioni, l’adozione di una prospettiva dei beni comuni dipende da una forte volontà politica e civica, che possa favorire un ripensamento delle attuali istituzioni e degli orientamenti culturali al fine di promuovere l’innovazione e il cambiamento sociale. Si tratta di un effettivo esercizio democratico attraverso il quale gli attori negoziano e ricompongono il quadro istituzionale nel quale sono coinvolti. Com’è stato sottolineato, “aprire nuove strade nel campo della regolamentazione giuridica vuol dire nella sostanza favorire una necessaria trasformazione culturale ed etico-politica. Ed è proprio questo cambiamento che è necessario”[3], anche, e soprattutto, nel campo dell’educazione.

Note al testo:
[1]Unesco. 2015. Rethinking Education: Towards a global common good?Parigi, Unesco
[2]Brunod, M., Moschetti, M., Pizzardi, E. 2016. La coprogettazione sociale. Metodi e strumenti. Trento, Erickson (di prossima pubblicazione).
[3]Viola, F. 2016. Beni comuni e bene comune. Articolo presentato in occasione della conferenza “La questione dei beni comuni: la prospettiva costituzionale”, organizzata il 15 maggio 2015 dall’Università di Roma.

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