Nel popolo che soffre inevitabilmente, si generano fratture, conflitti, barriere. E quando alcune disuguaglianze diventano troppo grandi rischia di essere sostanzialmente disuguale anche la partecipazione all’esercizio della sovranità... (Scopri di più su: http://www.benecomune.net/articolo.php?notizia=2108)
Il popolo viene tradizionalmente indicato, insieme alla sovranità (il fatto che un ordinamento non dipenda per la sua validità da un ordinamento superiore) e al territorio, come uno dei tre elementi fondamentali della dottrina dello Stato. La Costituzione italiana non si limita ad affermare, già nel primo articolo, che «la sovranità appartiene al popolo» e orienta decisamente questo principio alle idee di partecipazione, responsabilità, sussidiarietà. La prima parte, significativamente, è intitolata ai diritti e ai doveri e dunque ai rapporti (civili, etico-sociali, economici e politici) nei quali si svolge la vita dei cittadini. Gli articoli dedicati ai rapporti politici (dal 48 al 54) si rivolgono esplicitamente e in modo quasi martellante, con l’unica eccezione di quello dedicato alla difesa della Patria e al servizio militare obbligatorio (e settanta anni fa riservato alla popolazione maschile), a tutti, perché tutti sono chiamati a «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49), ad essere cioè parte attiva del popolo sovrano e non semplici spettatori, magari distratti, di quello che avviene nei “palazzi del potere”.

Lungo questa via, il tema fondamentale resta quello della rappresentanza. Più precisamente, se si vuole puntare all’attualità del dibattito in corso sulla nuova Costituzione e il referendum, dell’idea e delle forme di rappresentanza che meglio corrispondono all’esigenza di garantire efficienza e tempestività nel governo di società avanzate e complesse, tenendo conto anche della sempre più accentuata “personalizzazione” delle dinamiche di raccolta e gestione del consenso. Il “richiamo al popolo”, in questo contesto, può assumere forme molto diverse, come la mobilitazione permanente dei cittadini, sfruttando magari a questo scopo le risorse del web, o una leadership forte che trova nella sua legittimazione elettorale (il rapporto diretto con il popolo sovrano) la premessa che consente di affrontare con successo il groviglio di valori e interessi con i quali si misura il decisore politico. L’affermazione che la sovranità appartiene al popolo (che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione) può (deve) tuttavia essere letta in una prospettiva più ampia di quella della semplice ingegneria istituzionale che la traduce in una legge elettorale o in una forma di governo. È l’idea che nella democrazia si condensa l’eredità di una storia condivisa, un patrimonio di valori che sono custoditi nella memoria collettiva e che costituiscono per questo l’argine di sicurezza della buona politica. La stessa solidità delle istituzioni dipende da questa stabilità inclusiva del quotidiano, vissuta come spazio di libertà per tutti e non di omologazione.

È difficile sentirsi popolo quando l’affanno del bisogno scava per molti solchi profondi di marginalità o vera e propria esclusione, quando si ferma l’ascensore sociale, quando perfino l’esperienza della vulnerabilità di fronte alla malattia e alla sofferenza traccia il perimetro del privilegio anziché allargare quello dei diritti e della solidarietà. Il popolo italiano, se vuole continuare ad essere e a farsi tale, non può eludere questo passaggio: l’unità e indivisibilità della Repubblica, presupposto della promozione delle autonomie locali (art. 5 della Costituzione), non è una formula retorica e si verifica nella sostanza dei rapporti dai quali dipendono la libertà e l’uguaglianza dei cittadini e il pieno sviluppo della persona umana (art. 3).

Mi limiterò a due esempi. L’Istat ci ricorda che nel 2015 il numero delle persone che vivevano in Italia in condizioni di povertà assoluta sfiorava i 4 milioni e 600 mila. Parliamo del numero più alto dal 2005 e il disagio cresce in particolare nelle famiglie, soprattutto coppie con 2 figli e famiglie di soli stranieri. Non è difficile immaginare che in molti casi le prime possano finire per sentirsi escluse dal loro stesso popolo, mentre le seconde faticheranno a diventarne e a sentirsene davvero parte. All’inizio di giugno, sono stati presentati i risultati di una ricerca Censis-Rbm Assicurazione Salute sul ruolo della sanità integrativa nel servizio sanitario nazionale: sarebbero 11 milioni (2 in più rispetto al 2012) gli italiani che hanno deciso nell’ultimo anno di rinviare prestazioni sanitarie o rinunciare semplicemente ad esse a causa di difficoltà economiche, con una percentuale di insoddisfazione per il servizio sanitario offerto nella propria regione che nel Sud arriva al 68,9 per cento, rispetto al 32,8 per cento del Nord-Est. La distanza fra le regioni italiane rispetto alla tutela della salute è da tempo un’evidenza inconfutabile. Anche il Rapporto Ocse sulla qualità dell’assistenza sanitaria in Italia presentato nel gennaio del 2015 invitava a lavorare per ridurre le forti disparità tra le regioni nelle quali vive il popolo di questa Italia una e indivisibile. E considerazioni analoghe si potrebbero fare per istruzione e università. Per non parlare del lavoro, il fondamento della Repubblica dal quale una percentuale tanto grande degli italiani e soprattutto dei nostri giovani rimane esclusa.

Questi problemi sono purtroppo ben noti. Nel popolo che li soffre, inevitabilmente, si generano fratture, conflitti, barriere. E quando alcune disuguaglianze diventano troppo grandi rischia di essere sostanzialmente disuguale anche la partecipazione all’esercizio della sovranità. Il canto degli Italiani fu scritto da Goffredo Mameli nel 1847 e ci ricorda che per essere popolo occorre superare le divisioni e raccogliersi intorno a «un’unica bandiera, una speme». Serve prima di tutto una speranza condivisa per chiedere alle persone di fondersi e di restare insieme.

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