È sempre utile avere a disposizione una buona guida quando si intende approfondire la conoscenza di qualcosa. Soprattutto se quella guida nasce dall’esperienza di qualcuno che quel qualcosa lo vive quotidianamente e riesce meglio a coglierne criticità e particolarità. Quel “qualcosa” in questione è il Terzo Settore e l’utile guida è l’ebook Da Advocacy a Trasparenza. Glossario sulla rappresentanza e la partecipazione del terzo settore di Maria Cristina Antonucci, pubblicato dal Cesvot e scaricabile gratuitamente dal sito dell’organizzazione di volontariato toscana. (Scopri di più su: Labsus.org)
Da Advocacy a Trasparenza. Glossario sulla rappresentanza e la partecipazione del Terzo Settore di Maria Cristina Antonucci “è un libro generoso, un vademecum che può aiutare a non cadere nei fraintendimenti e ad evitare facili approssimazioni favorendo, così, una corretta applicazione dei metodi democratici e di delega” come ci spiega Cristiana Guccinelli, responsabile del settore Informazione, Comunicazione, Ufficio Stampa e Ricerca di Cesvot. Abbiamo contattato lei e l’autrice del libro per farci raccontare questa iniziativa editoriale.

Partiamo da una domanda molto generale: perché questo libro?

Questo libro nasce in un modo simpatico e condiviso, in occasione di un seminario organizzato da Cesvot con il Forum Toscano del Terzo Settore. Il titolo era “La rappresentanza del volontariato e il ruolo dei Csv”. Fu una occasione per aprire una riflessione sulla rappresentanza del volontariato, anche alla luce della neonata riforma del Terzo settore. Subito si impose al confronto una questione di metodo e, se vuoi, di rigore. Mi spiego meglio: il Terzo Settore, e il volontariato in particolare, vedono aumentare la loro responsabilità pubblica nei confronti delle comunità di riferimento. Ma anche la loro responsabilità politica diventa sempre più grande, essendo presidi di democrazia che ancora vantano una reputazione e un riconoscimento sociale. Ecco che, dal confronto e dalle sollecitazione di Gianluca Mengozzi, portavoce del Forum del Terzo Settore toscano e di Maria Cristina Antonucci, si è insinuata la necessità di ri-puntualizzare e ri-definire i temi della rappresentanza e della partecipazione. Questo progetto non potevamo che farlo insieme a Maria Cristina Antonucci, una studiosa che conosce molto bene le potenzialità e i limiti della pratica della rappresentanza nel Terzo settore e che ringrazio ancora per aver accolto questa sollecitazione.

Il Glossario come una cassetta degli attrezzi per gli operatori del Terzo Settore, ma anche fonte di conoscenza per quanti si vogliano avvicinare a questo mondo. Ogni termine diventa, quindi, uno strumento da utilizzare per capire. Qual è, dal tuo punto di vista, il concetto o l’aspetto che fino ad ora ha generato maggiore confusione e occorreva chiarire?

Dietro la formula del glossario, solo all’apparenza minimalista, Maria Cristina Antonucci indica ai lettori anche una visione del volontariato e del Terzo Settore. Si parla di quella componente della società civile, impegnata ed altruista, alla quale spesso manca, però, la capacità di dettare l’agenda alla politica, di incidere sui fenomeni, di fare lobbying. Per questo ogni termine che abbiamo incluso nel glossario ha, secondo noi, necessità di essere chiarito. Magari per pubblici diversi. Vorrei ricordare che anche il termine Terzo settore, che per gli addetti ai lavori ha un significato ovvio, rimane ancora oscuro e confuso in gran parte dell’opinione pubblica. Ma il concetto che ritengo cruciale per l’associazionismo è quello di lobbying. Oggi il vero pezzo mancante è la capacità di riflettere sugli strumenti, sugli obiettivi e sugli interlocutori che consentono di affermare politicamente gli interessi dei gruppi sociali che l’associazionismo sostiene (o rappresenta).

Nel libro sono descritti e spiegati puntualmente 24 diversi termini. Ma ce ne è qualcun altro che avresti inserito nel libro e che credi sia necessario per definire il Terzo Settore?

Dopo aver letto il bel libro di Peruzzi e Volterrani La comunicazione sociale (Ed. Laterza) e per deformazione professionale, inserirei nel glossario anche la voce “comunicazione sociale”. Come si afferma nel testo, essa è vocata a promuovere i diritti, la giustizia e la solidarietà sociale. E le organizzazioni del non profit sono naturalmente il primo promotore di comunicazione sociale, anche se non l’unico, e hanno il difficile compito di accompagnare i temi sociali all’attenzione del pubblico. Un tema sociale ha una carriera da intraprendere, deve diventare un problema sociale ed essere riconosciuto da un’agenda pubblica. Negoziare con i media e saper accreditare i nostri argomenti più che le nostre organizzazioni, fino a farli diventare noti; uscire dalla autoreferenzialità per parlare alla gente, far parte dell’opinione pubblica e avere, così, la forza di destare l’interesse della politica e del legislatore. Un tema sociale fa una buona carriera quando riesce a cambiare le cose. Pensiamo alla rivendicazione dei diritti delle persone omosessuali: un lavoro culturale e sociale decennale, che diventa un sentire comune dell’opinione pubblica e che detta, poi, alla politica la necessità di cambiamenti normativi profondi. In questo caso gran parte della carriera di questo tema sociale si compie con la tanto attesa legge sulle unioni civili dello scorso maggio. Per questo si dice che la comunicazione sociale ha una forza rivoluzionaria. Perché mira a cambiare la società e i rapporti di forza tra i gruppi. La consapevolezza del ruolo della comunicazione sociale è necessaria anche per la capacità di fare lobbying.


Fare lobbying nel Terzo settore

Con Maria Cristina Antonucci, autrice del libro, proviamo invece a scendere un po’ più nel dettaglio del libro e nella riforma del settore dello scorso giugno.

Ti propongo la stessa domanda che ho fatto a Cristiana. Qual è il termine che ha generato maggiore confusione e che occorreva chiarire più nel dettaglio nel libro? E quale, invece, è rimasto fuori dal Glossario, ma ritieni comunque utile per delineare meglio i contorni del mondo del Terzo Settore?

Un termine che presenta sempre qualche criticità è “lobbying”, che viene associato alle “lobby”, considerate in modo negativo dai mass media e nel linguaggio comune. Fare lobbying nel Terzo settore, invece, significa veicolare rappresentanza degli interessi sociali, e non economici, presso il sistema istituzionale. Il lobbying è lo strumento con cui i soggetti del non-profit fanno sentire la voce del non-profit alle istituzioni. Per chiarire l’utilità del lobbying per il sociale, nella voce ho cercato di fornire una visione più neutrale possibile del termine, chiarendo quanto possa essere funzionale al perseguimento degli obiettivi del sociale. Una voce che è rimasta fuori, anche in ragione della copiosa letteratura già presente sul tema, è la sussidiarietà: essa è senz’altro una precondizione in cui tutti gli enti del Terzo settore si muovono ed è la dimensione da cui tutte le attività di partecipazione e rappresentanza prendono l’avvio. In questo senso, ho ritenuto di considerare la sussidiarietà come orizzonte già costruito per il Terzo settore.

Uno dei termini che hai scelto è “partecipazione”. Qualche mese fa mi sono imbattuto in uno studio sulla partecipazione alla vita pubblica dei più giovani e uno dei dati che emerge è il fatto che il volontariato risulta essere ciò che, più diffusamente, si associa al concetto di partecipazione per gli under 30. Ti sorprende questo risultato?

No, non mi sorprende: la significatività della propria azione è connaturata, tanto all’atteggiamento di conoscenza esperienziale dei più giovani, quanto alla identità stessa del volontario. Si tratta di una significatività che trova la propria radice nella partecipazione come scelta forte, alla base tanto della identità del giovane e del volontario, a fronte delle moltissime, poco significative scelte deboli che affollano le nostre vite nella la società dei consumi di massa. Tanto meno viene definita la nostra identità tramite consumi effimeri e poco soddisfacenti, quanto più ci si pone alla ricerca di esperienze in grado di lasciare un segno dentro alla nostra comunità e nel nostro percorso di vissuto. In questo senso giovani e volontariato si incontrano alla perfezione nella partecipazione collettiva, che è impegno, responsabilità, condivisione nelle esperienze costruite attorno a valori.

Nel libro si parla diffusamente della riforma del Terzo Settore dello scorso giugno con l’approvazione della legge 106/2016. A tuo avviso, quali sono i punti forti di quella riforma e quali gli aspetti, al contrario, che potevano essere regolati in maniera più precisa o che sono stati addirittura “dimenticati” dal legislatore?

Trovo che sia molto importante la definizione legislativa dei soggetti di Terzo settore: organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale e realtà del mutuo soccorso, concettualmente divise dalle strutture più orientate verso la dimensione economica, come le imprese sociali. Considero meritorio l’obiettivo di giungere ad una semplificazione legale e fiscale delle procedure riservate agli enti di Terzo settore. Invece, a mio parere, il principale elemento di debolezza risiede nella grande ampiezza della delega conferita con la riforma al Governo e in particolare al Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. In particolare, non ho apprezzato la gestione – centralizzata e normalizzante – da parte del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali del registro nazionale degli enti di Terzo settore, laddove molti di essi agiscono su territori locali e regionali. Non ho, poi, chiara la motivazione che ha portato alla creazione della Fondazione Italia sociale, invece di recuperare altre esperienze, come l’Agenzia per il terzo settore. Trovo, infine, che potrebbero essere complicati il ruolo e l’attività del Consiglio Nazionale del Terzo Settore, dotato del non facile compito di far sentire la voce del sociale nei confronti delle istituzioni che esercitano la governance prevista dalla riforma. Vedremo con i decreti delegati come questi temi saranno affrontati.

Per concludere, qual è il ruolo che il mondo del volontariato può svolgere nella tutela e nella promozione dei Beni comuni in Italia?

Credo che possa essere davvero un nuovo, ulteriore protagonista della stagione di cura e promozione dei beni comuni, soprattutto laddove si parla di nuovi formati di volontariato, meno strutturati in organizzazioni e più spontaneamente aderenti al territorio. In una ricerca recente (Antonucci, Fiorenza, 2016) ho puntato l’attenzione proprio su questi formati di volontariato non strutturato, legati alla cura dei beni comuni a Roma, Rieti, Viterbo. Temi quali l’acqua pubblica, l’assetto degli spazi della città, la cura e il recupero urbano contro il degrado, la tutela dell’ambiente sono in grado di mobilitare in un modo nuovo formati inediti di cittadinanza organizzata, a fianco delle reti di volontariato strutturate. Mentre queste ultime vivono una nuova stagione di protagonismo ogni qual volta si verifica un evento eccezionale, come un disastro naturale o una emergenza umanitaria, le reti di cittadini organizzati manifestano un maggiore impatto proprio nell’ordinaria gestione della dimensione locale delle comunità, degli spazi e dei beni comuni. Questo nuovo volontariato civico può affiancare le tradizionali reti di volontariato, e garantire tutela e promozione dei beni comuni.

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