Per alcune settimane l’estate del 2016 è stata attraversata da un acceso dibattito relativo all’uso del burqini, il capo di abbigliamento utilizzato dalle donne musulmane per recarsi in spiaggia o in piscina. La querelle, come noto, è stata originata dall’intervento di alcuni sindaci francesi che hanno adottato apposite ordinanze volte a vietare l’uso di tale indumento sulle spiagge pubbliche per la durata del periodo estivo, adducendo a fondamento della propria azione ragioni legate alla sicurezza e all’igiene dei bagnanti. (Scopri di più su: Labsus.org)
Il Conseil d’État, sollecitato dai ricorsi presentati dalle associazioni Liguedesdroits de l’homme e Comitécontre l’islamophobie en France, è intervenuto in urgenza e ha adottato un’ordinanza atta a sospendere l’efficacia del provvedimento emesso dal sindaco di Villeneuve-Loubet, il primo ad aver vietato l’uso del burqini sui litorali francesi. Alla base della decisione vi è stata la considerazione (peraltro condivisa anche dall’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite) che la limitazione introdotta violasse le libertà fondamentali di circolazione e coscienza, esulando così dalla funzione di tutela dell’ordine pubblico spettante al sindaco, cui compete regolare l’accesso ai luoghi pubblici con misure non solo direttamente funzionali agli obiettivi perseguiti ma anche proporzionali quanto alle loro conseguenze. Nel caso di specie, invece, il giudice francese ha ritenuto che non vi fossero rischi effettivi e immediati per l’ordine pubblico.


La neutralità degli spazi pubblici

La questione, che può apparire a prima vista di impatto limitato sia quanto al suo arco temporale, sia quanto alla sua collocazione territoriale, in realtà si inserisce in una riflessione ben più ampia che coinvolge da tempo istituzioni locali, giudici e dottrina chiamati ad individuare un tendenziale equilibrio nella relazione tra fruizione collettiva dei luoghi urbani ed esercizio della libertà di religione, in specie con riguardo all’utilizzo del burqa e di altri indumenti tipici atti a velare, integralmente o parzialmente, il volto e il corpo femminile.

Al centro del dibattito vi è il problema della neutralità dello spazio pubblico e, dunque, del rapporto tra religione e diritto.

Nel sistema italiano il tema è, a prima vista, meno discusso di quanto accada in quello francese. Basti pensare che nonostante l’uso del burqini sia stato oggetto di limitazioni e divieti anche da parte dei sindaci italiani (v.le ordinanze n.15/2009 del Comune di Drezzo, n. 99/2009 del Comune di Varallo Sesio, n. 36/2010 del Comune di Novara e n. 82/2010 del Comune di Codogné), ciò non ha comportato (se non per un caso, su cui v. dopo) conseguenze rilevanti come accaduto nei mesi scorsi in Francia.

D’altro canto, è diverso il contesto normativo di riferimento. In Francia, già dal 2004 è proibita ogni esibizione di segni religiosi nelle scuole pubbliche, mentre dal 2010 vige il divieto di “dissimulation du visage dans l’espace public” (divieto ormai peraltro avallato in via definitiva anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo).

Se non vi è dubbio che l’accezione generale accolta nel nostro ordinamento del principio di laicità quale “salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale” (così, ad esempio, la recente sentenza Corte cost. 24 marzo 2016 n. 96) abbia l’effetto di contenere le spinte dei poteri locali verso un’azione amministrativa di regolazione conflittuale, segnali di conflitto si avvertono ormai anche sul territorio nazionale.


L’intervento della Regione Lombardia

I condizionamenti dei più recenti fenomeni terroristici e, in correlazione, di quelli migratori, stanno producendo effetti chiari sulle decisioni politiche locali e sull’interpretazione del concetto di sicurezza urbana, rispetto al quale si nota una tendenza espansiva.

Pur in assenza di un provvedimento generale che limiti in modo espresso l’uso di indumenti religiosi atti a coprire il volto, è con riferimento a questi capi di abbigliamento che un esempio recente ha fatto discutere l’opinione pubblica.

All’indomani degli attentati di Parigi del novembre 2015, la Giunta della Regione Lombardia, richiamando la legge 22 maggio 1975 n. 152 (c.d. legge Reale) che all’art. 5 proibisce “l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo”, ha adottato la delibera 10 dicembre 2015 n. X/4553. Il provvedimento, che mira a rafforzare il sistema di controllo e di identificazione all’interno delle sedi regionali nonché degli enti e delle società partecipati, rinvia ad appositi atti dirigenziali la previsione di misure volte a dare applicazione al divieto di ingresso e di permanenza in tali luoghi “da parte di chi occulti i propri connotati fisici”.

La legittimità della delibera, pur avendo suscitato polemiche in considerazione del suo ambito oggettivo di applicazione (riferibile non solo ad uffici pubblici, ma anche ad ospedali e istituti di cura) e della sua chiara connotazione politica, non è però stata messa in discussione. anche perché, tra le prerogative dell’ente pubblico proprietario vi è la regolazione dei modi d’uso dei beni soggetti alla sua appartenenza, tra cui l’accesso agli uffici pubblici.


La sicurezza urbana

Nel nostro ordinamento la sicurezza urbana è stata definita quale “bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell’ambito delle comunità locali del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale” (art. 1 del decreto del Ministero dell’Interno 5 agosto 2008).

La sicurezza deve, quindi, essere collocata tra i fini essenziali della configurazione dei luoghi urbani e la programmazione urbanistica deve tener conto di questo principio.
I provvedimenti cui spetta operare, in concreto, la cura del bene “sicurezza” devono, quindi, mirare a regolare i modi di accesso agli spazi urbani e, al contempo, a definire i comportamenti che possono essere assunti al loro interno perché ritenuti socialmente accettabili.

Nelle città, tale ruolo spetta ai sindaci, che operano attraverso l’adozione di ordinanze cui, nel rispetto delle fonti statali, è consentito di condizionare l’accesso e lo stazionamento negli spazi urbani e, di conseguenza, le situazioni soggettive di chi tali spazi utilizza.

L’introduzione di limiti alla circolazione nei luoghi urbani, pur condizionandone la fruizione collettiva, è ammissibile in quest’ottica, poiché mira a soddisfare le crescenti istanze di sicurezza emergenti dalla collettività.


I limiti del potere pubblico

Ma quale è l’ambito oggettivo di riferimento (e, quindi, quali sono i confini legittimi) del potere descritto?

Interpretate dal punto di vista dei flussi che si sviluppano al loro interno, le città sono luoghi fisici di interazione nelle quali i confini tra spazi pubblici e spazi privati si presentano mutevoli. Ma se gli spazi appaiono, in concreto, integrati e comunicanti, allora la regolazione amministrativa che ha per obiettivo la loro cura e tutela non può essere limitata dal regime delle appartenenze: talune regole, tra cui quelle volte a garantire la sicurezza urbana, devono valere sia per gli spazi pubblici, sia per quelli che, seppure privati, sono di interesse pubblico. E’ così per l’installazione di sistemi di videosorveglianza o per i limiti alle riunioni in aree cittadine c.d. sensibili.

Non vi è dubbio, tuttavia, che si possa rilevare l’esistenza di un legame diretto tra “diffidenza” del diverso e aumento delle restrizioni imposte dai governi locali ai modi di accesso e stazionamento nei luoghi pubblici. Nei casi richiamati ciò che emerge è, nello specifico, un problema di iper-regolazione non giustificata degli spazi urbani. Non è infrequente, infatti, che i vincoli all’uso generale siano imposti con atti amministrativi non adottati in presenza di un immediato e verificato pericolo per l’incolumità e per la sicurezza urbana quanto con mero carattere preventivo.


Il controllo sociale degli spazi condivisi

Allora, forse, occorre guardare al problema del rapporto tra spazi urbani e sicurezza da un’altra prospettiva, che tenga conto anche del crescente fenomeno di cura e di gestione condivisa di tali spazi.

Gli eventi terroristici che hanno duramente colpito negli ultimi tempi diversi Stati europei ed extraeuropei hanno fortemente inciso sulla domanda di sicurezza da parte della collettività, specialmente nelle grandi città. Per questo i luoghi urbani metropolitani sono ormai anche spazi di incertezza nei quali i cittadini, da un lato, richiedono alle amministrazioni locali di rinforzare gli strumenti tradizionali previsti a garanzia del vivere associato ma, dall’altro, ne percepiscono i limiti di fronte a modalità criminali che, almeno all’apparenza, appaiono difficilmente prevedibili quanto al loro manifestarsi.

È in questa contraddizione che si potrebbe riconoscere un nuovo ruolo alla cura condivisa degli spazi cittadini i quali, alla luce di quanto detto sinora, si comprende facilmente come non possono essere considerati neutrali di fronte alle istanze di sicurezza. I beni comuni urbani la cui gestione avviene sulla base di un patto di collaborazione sono, infatti, oggetto di un controllo sociale particolarmente attento che potrebbe portare, ad esempio, ad accrescere le segnalazioni alle forze dell’ordine per comportamenti o fatti potenzialmente pericolosi per la comunità. E, al contempo, i beni urbani condivisi sono luoghi che possono favorire l’integrazione, elemento importante per contrastare forme di ingiustificata discriminazione.

In altre parole, il fatto stesso che nei confronti di taluni spazi urbani vi sia un interesse evidente da parte della collettività, la quale li ha scelti per riattivarne o potenziarne la capacità di soddisfazione dei bisogni sociali collaborando con l’amministrazione locale, fa sì che debba essere perseguito l’obiettivo comune di garantirne la fruizione collettiva secondo una diffusa percezione di sicurezza. In quest’ottica, allora, la condivisione potrebbe diventare strumento informale in grado di rafforzare l’azione istituzionale proprio nei confronti di quegli spazi cittadini dove l’interesse generale è più marcato.

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