Siamo più rapidi negli spostamenti, circondati da eventi eppure sempre più disconnessi e soli. In pochi tratti Marc Augé, direttore di ricerca ed ex direttore dell’École des hautes études en sciences sociale (EHESS) e ideatore del fortunato termine “non luogo”, descrive l’essenza di quella che chiama “surmodernità”: il tempo in cui siamo immersi, il nostro tempo, scandito dal ritmo pulsante delle grandi metropoli contemporanee. (Scopri di più su: OrigamiSettimanale.it)
In questi spazi complessi e molteplici, al cui studio Augé ha dedicato i suoi testi più noti, le interconnessioni tra centro e periferia determinano continui spostamenti di senso, dinamiche e situazioni da non leggere come immutabili. Perché, ci spiega Augé, lo stesso concetto di periferia è “ingannevole”.

Professor Augé, ma una periferia può davvero diventare capitale culturale? Più di un centro?

Certamente, in molte città la periferia gioca un ruolo culturale molto importante. Si tratta soprattutto di lavori sperimentali, teatro d’avanguardia, iniziative legate al mondo della musica e della letteratura. Accade a Parigi, in distretti il cui solo nome sembra essere legato a una maledizione, come il 93, quello di Saint Denis. È qui che nascono molte delle innovazioni culturali che poi andranno a nutrire il “centro”.

Come spiega questo fenomeno?

Le periferie sono il posto in cui i problemi che si dibattono sul piano nazionale sono reali: la disoccupazione, le tensioni tra le diverse comunità religiose, la lontananza dalle istituzioni (anche europee). Ma proprio perché sono posti difficili, sono posti vivi. La lotta per risolvere queste difficoltà genera anche molta energia creativa. Tanto più che moltissimi creativi decidono poi di trasferirsi in quelle zone per seguirne il battito.

Che cos’è per lei la “periferia”?

Troppo spesso la si confonde con un concetto geografico: qualcosa che sta fuori dalle città. Come se le città fossero circondate da una corona di povertà. Ma la realtà è più complessa: le periferie non sono un concetto geografico ma sociale. Ci sono quartieri centralissimi a Parigi, ma anche altrove, le cui dinamiche sono periferiche, degradate. Penso ad alcune aree del 19emo arrondissement ad esempio, ma anche a Molenbeek a Bruxelles, divenuta nei mesi scorsi snodo del terrorismo internazionale: non si tratta di un quartiere estraneo alla città quanto alla società.

Molto spesso in questi quartieri risiedono molti immigrati di seconda o terza generazione, che si sentono esclusi o emarginati dai giri che contano.

Esattamente. E quella stessa energia creativa di cui parlavamo prima, quella forza che fa sì che compagnie americane vengano a reclutare giovani informatici proprio nelle zone più disagiate, può rapidamente trasformarsi in una forza distruttrice se non è ben indirizzata, ben utilizzata. Siamo in un regime di concorrenza dove ciò che non viene attratto dalle forze positive e propositive può spesso rivolgersi verso le sirene del proselitismo religioso.

Se le periferie popolate di migranti possono essere il nuovo centro della cultura, gli immigrati o i loro figli possono esserne i futuri protagonisti?

Molto spesso lo sono ma bisogna diffidare di una visione troppo ottimistica. La presenza di un teatro d’avanguardia o di un’iniziativa culturale in periferia non implica necessariamente che gli immigrati lì presenti ne siano parte integrante, vi prendano parte. Il rischio è quello di dar vita a dinamiche di coesistenza piuttosto che di coabitazione.

Quali sono allora i rischi da evitare nel ripensare le periferie?

Non bisogna sottovalutare lo sforzo richiesto: ciò che facciamo o non facciamo oggi avrà un impatto importante sulla società di domani. Purtroppo l’esempio francese in tal senso è negativo: quando negli Anni 70 abbiamo accolto le generazioni di migranti in arrivo soprattutto dal Nord Africa, si è creduto che la loro sarebbe stata una presenza solo temporanea. I bambini sono andati a scuola ma per formarli adeguatamente e dare loro pari opportunità ci sarebbe voluta una mobilitazione eccezionale. Cosa che non è accaduta. È stata una politica miope e incompleta.

E del centro, cosa ne sarà in futuro?

È difficile dirlo, proprio perché la realtà non è così dicotomica come spesso la descriviamo. Già oggi ci guardiamo continuamente intorno in cerca di un centro. Ma in realtà il centro dov’è? Non lo sappiamo più.

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