In Francia s’inizia a chiamarla “democrazia contributiva” (La tribune fonda, 2016). L’italiano suona non proprio attraente… ci richiama subito ai nostri doveri fiscali! Potremmo forse tradurre così: la democrazia di cui i cittadini si prendono cura. (Scopri di più su: Labsus.org)
Dal punto di vista teorico questo è un passaggio nuovo e importante. Da decenni infatti gli studiosi cercano di capire quali forme democratiche sono d’aiuto a un sistema rappresentativo sempre più in difficoltà.

Ecco allora tutto il dibattito sulla partecipazione (Gallent e Ciaffi, 2014) e sulla deliberazione (Girard e Le Goff, 2010). Le elezioni non possono essere l’unico momento in cui gli abitanti sono chiamati a partecipare e a decidere (e, ora aggiungiamo: a contribuire). Nel senso che chi si attiva per la cura dei beni comuni non ha più solo l’esigenza di essere coinvolto nelle decisioni, ma ha anche il diritto, appunto, di contribuire.

Facciamo un esempio: di fronte a uno spazio pubblico trascurato l’amministrazione pubblica locale potrebbe avviare un percorso coinvolgendo gli abitanti in un progetto a più voci (democrazia partecipativa), ovvero avviando un processo di discussione e votazione per arrivare a un progetto deciso anche dagli abitanti sul futuro del luogo (democrazia deliberativa). Sempre più spesso, però, l’iniziativa è presa da gruppi di abitanti che iniziano come possono ad attivarsi per la cura dello spazio pubblico, contribuendo in prima persona al miglioramento della qualità del bene comune insieme all’amministrazione pubblica locale (democrazia contributiva).

La novità è che chi governa e chi è governato si assumono insieme la responsabilità della cura della democrazia locale. Alla base di questo obiettivo ideale stanno esperienze molto concrete di cura dei beni comuni.


Chi sono i ” commoners ” francesi e italiani?

I protagonisti di questa svolta epocale hanno profili eterogenei e sono distribuiti sia nelle città che nei territori rurali e montani. Le esperienze che stanno facendo scuola sono capitanate da quelli che nel mondo anglosassone vengono chiamati i “commoners”.

Come i lettori di Labsus sanno, in Italia sono sempre più frequenti le pratiche di amministrazione condivisa dei beni comuni che vedono protagonisti anche quegli amministratori pubblici che accettano la sfida di attivarsi cambiando anzitutto attitudine: dall’autorità esercitato in nome delle proprie responsabilità politiche o tecniche alla condivisione delle stesse con gli abitanti attivi (Arena, 2011).

In Francia “il ritorno dei beni comuni” (Coriat, 2015) è dovuto all’incrocio di persone attive su tre fronti: chi lavora sulla consapevolezza della finitezza delle risorse naturali, prendendosene cura; chi sostiene l’open source e il libero accesso; e chi, soprattutto a livello locale, cerca di rilanciare il potenziale della società civile trascurata attraverso innumerevoli forme ibride di organizzazione economica, come l’economia sociale e solidale (SSE). Queste iniziative dei cittadini sono finora state trattate come “eccezioni” in relazione ad un modello dominante organizzato intorno alla coppia stato/mercato. In tutto il mondo si inventano e si reinventano forme di azione diretta per creare, conservare o rendere accessibili beni e servizi in “comune”. Si tratta anche sia di risorse naturali che di risorse immateriali. Software liberi e semi, abitazioni collettive, orti comunitari, monete civiche locali, energie alternative, comunità di software liberi, co-working (eccetera) sono tutti modi per articolare innovazioni tecnologiche e bisogni umani per quei cittadini sensibili agli obiettivi di equità, di visione di lungo periodo, di cooperazione e condivisione delle risorse.

I nuovi percorsi di economia sociale, all’interazione tra la tecnologia e le questioni economiche e sociali, sono essenziali per preparare la nostra economia del domani e il nostro futuro vivere insieme, riconsiderando la condivisione e la cooperazione non come una soluzione residuale, ma come una forma di organizzazione essenziale per uno sviluppo sostenibile. Esse riguardano le comunità locali che cercano di “riterritorializzare un’economia delle industrie e dei servizi”.


Il ruolo de La Coop des Communs e di Labsus

Se molti sono i casi in cui i beni comuni aggregano naturalmente i pionieri della democrazia contributiva, molto lavoro hanno anche i soggetti che, come Labsus in Italia e La Coop des Communs in Francia, nascono con l’obiettivo di costruire nuove alleanze tra i diversi attori del cambiamento. La Coop des Communs riunisce attivisti del mondo dei beni comuni, ricercatori, militanti e imprenditori dell’economia sociale e solidale (ESS) così come attori pubblici. La volontà è quella di contribuire alla costruzione di un sistema favorevole alla nascita di beni comuni costruiti insieme all’ESS e ai governi pubblici interessati. La Coop des Communs crede nella legittimità e nella pertinenza di forme di solidarietà, reciprocità, proprietà e governance collettive “in comune”.

Queste nuove forme sociali rispondono alle sfide delle trasformazioni tecnologiche, demografiche, ecologiche, al lavoro nel mondo del lavoro e della globalizzazione. Alleati, beni comuni ed ESS possono dar luogo non a soluzioni marginali o residuali, ma a veri e propri pilastri dello sviluppo sostenibile in una visione pluralistica dell’economia.


Stesso obiettivo con differenze di contesto

Inutile negare che esistono profonde differenze culturali tra i diversi contesti nazionali. Nel confronto Italia/Francia, ad esempio, viene spontaneo chiedersi se mai il consolidato dirigismo francese potrebbe scendere a patti, e nello specifico ai patti di collaborazione che si possono stipulare negli oltre 120 Comuni italiani che hanno adottato il regolamento per l’amministrazione condivisa. Ma, come ricorda D’Avenia (2016. p.27), cultura deriva dalla parola latina colere da cui cultum: l’agricoltura non era altro che il prendersi cura del campo. Come a dire che, prima ancora di riflettere sulle differenze tra le nostre culture istituzionali particolari, occorre constatare il fatto che della nostra democrazia dobbiamo prenderci cura in generale.

La democrazia praticata nelle azioni collettive è un esercizio di democrazia in generale. L’esperienza tanto de La coop des Communs quanto di Labsus è che è più facile a dirsi che a farsi, e che l’attuazione si basa su delle persone e su un quadro generale di fiducia che procede per prove ed errori in modo intelligente, con continui test di andata e ritorno. La proposta è di non separare mai la pratica dalla teoria: come ad esempio i metodi e gli strumenti di gestione/management possono supportare l’azione collettiva?


Sfide, posizioni e dilemmi da dibattere

Una delle sfide più urgenti è senza dubbio quella di creare occupazione a partire dall’uso non esclusivo dei beni comuni (già questa, secondo alcuni, è una contraddizione in termini!). Occorre a questo proposito discutere le diverse esperienze pilota e dilemmi che si presentano. Ad esempio, un gruppo di artisti parigini hanno occupato un edificio SNCF (la società delle ferrovie francesi) in disuso ammettendo di farne per certi versi un “uso corporativo”: eppure il loro lavoro quotidiano nel quartiere e nella prospettiva di un bene comune aperto a tutti è risultata essere un’esperienza pilota di ricerca-azione riconosciuta dall’amministrazione locale oltre che dagli abitanti.

Ora, in Italia, di fronte alla questione di quale portafoglio destinare ai beni comuni, stanno prendendo forma due posizioni. Da un lato c’è chi punta a finanziamenti multimilionari: è il caso ad esempio del progetto della città di Torino a cui il bando europeo Urban Innovative Action ha destinato risorse per opere di riqualificazione fisica e di accompagnamento alle azioni di amministrazione condivisa. Dall’altro lato c’è chi sostiene che la strategia da perseguire sia opposta e l’obiettivo consisterebbe invece nell’ideare esperienze “a € zero”: ecco allora le centinaia di patti di collaborazione per la cura dei beni comuni a Bologna.

In Europa si può talvolta persino intravedere il gioco delle sfere d’influenza sul futuro del lavoro intorno al tema dei beni comuni nelle piattaforme digitali. Le grandi fondazioni e le reti inglesi e statunitensi passano attraverso la diffusione di concetti e progetti pilota per diffondere le proprie posizioni e i propri modelli. Strategie, giochi sottili e potenti sono in fase di riproduzione. A partire dal cambiamento che il tema dei beni comuni sta catalizzando nel mondo occidentale, anche in Italia e in Francia, questa riflessione invita a ripensare una democrazia in cui i cittadini attivi possano dare il proprio contributo, attraverso la costruzione di amministrazioni non autoritarie ma egualitarie. Abbiamo fatto all’inizio dell’articolo l’esempio della cura dello spazio pubblico locale da parte degli abitanti, ma potremmo pensare anche a sfide ambientali (la cura di un lago o di una valle), così come a beni comuni immateriali (la memoria di un luogo, la qualità dell’acqua e del cibo).

Per andare in questa direzione è necessario portare avanti esperienze pilota attorno ai beni comuni, tanto ricche quanto povere, per ripensare nuovi modelli ambientali, sociali ed economici. Queste esperienze dovrebbero cercare di non essere portate avanti separatamente, solo per tematiche o aree geografiche, ma dovrebbero al tempo stesso cercare di formare insieme un disegno unitario per consolidare una massa critica di persone accomunate da una prospettiva politica europea alternativa.


Riferimenti

Arena G. (2011) Cittadini attivi. Un altro modo di pensare all’Italia, Laterza, Roma-Bari
Comitato editoriale de La tribune fonda “Démocratie contributive : définition et enjeux” in La tribune fonda n. 232, dicembre 2016
Coriat B. (a cura di) (2015) Le retour des communs. La crise de l’idéologie propriétaire, Les liens qui libèrent, Parigi
D’Avenia A. (2016) L’arte di essere fragili, Mondadori, Milano
Gallent N., Ciaffi D. (a cura di) (2014) Community action and planning. Contexts, drivers, outcomes, Policy press, Bristol
Girard C., Le Goff A. (a cura di) (2010) La démocratie délibérative, Hermann, Parigi

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