Quanto accaduto e quanto sta accadendo in Tunisia, dall'altra parte del Mediterraneo, racconta di qualcosa che ci somiglia. Non solo per la minima distanza geografica, ma soprattutto per un presente e un futuro che ci riguarda direttamente.

"Anche se ve ne fottete, la cosa riguarda ognuno di voi": era il ritornello di una canzone di Dominique Grange sul '68 francese, che Fabrizio De André avrebbe poi tradotto e musicato liberamente nella Canzone del maggio. Lo si può attualizzare, quel ritornello, per dire quanto miope sia l'indifferenza dell'opinione pubblica italiana -anche colta e di sinistra- riguardo ciò che accade sull'altra sponda del Mediterraneo, in particolare in Tunisia. Dopo un'effimera ventata d'interesse per la "rivoluzione dei gelsomini", perlopiù presentata sotto la forma addomesticata e rassicurante di una pacifica ribellione della twitter generation contro la dittatura, il silenzio è calato sulla fase aspra e turbolenta della transizione tunisina.

Infatti, a un anno dalle prime elezioni democratiche, la Tunisia è a un bivio assai rischioso: certo, potrebbe superare l'impasse attuale nel quale la ha gettata la troika al governo, dominata da Ennahadha, il partito islamista detto moderato; ma potrebbe anche piombare nel gorgo di una situazione all'algerina. Non è un'ipotesi troppo pessimistica se si considerano alcuni fattori ed eventi: per citarne solo alcuni, la persistenza delle pratiche liberticide e repressive del vecchio regime; l'occupazione di buona parte dei posti di potere da parte del partito islamista; la sua compiacenza, se non complicità, verso le violenze dei salafiti; l'assenza di una nuova costituzione, che l'Assemblea costituente, eletta democraticamente, non è riuscita finora a licenziare; il fatto che le nuove elezioni, che dovevano svolgersi a marzo prossimo siano state rimandate di quattro mesi; il ricorso all'omicidio politico per sbarazzarsi degli avversari: il 18 ottobre è stato linciato a morte Lotfi Nagdh, militante di Nida Tounes, il partito neo-bourguibista fondato di recente dall'ex primo ministro Beji Caid Essebsi.

Insomma, a quasi due anni dalla rivoluzione, la Tunisia si caratterizza non solo per la presenza di una società civile ampia, attiva e combattiva, per un'effervescenza sociale e una presa di parola collettiva senza precedenti, ma anche per una diffusa delusione per le promesse fallite della rivoluzione, dall'altrettanto diffuso discredito del governo e dell'Assemblea costituente, dalla diffidenza verso quasi tutti i partiti. Ma principalmente da un profondo malessere sociale, soprattutto nelle regioni non costiere e nei quartieri urbani diseredati, che sono sull'orlo dell'esplosione sociale. Questo malessere continua a manifestarsi perfino nella forma del suicidio pubblico tra le fiamme. Come se nulla fosse cambiato, infatti, le torce umane continuano a illuminare la scena pubblica, sebbene immediatamente censurate dai media e dai nuovi poteri.

Un tale fenomeno -che precede e segue l'autoimmolazione più celebre, quella di Mohamed Bouazizi, scelta poi come mito ed evento inaugurale della Rivoluzione del 14 gennaio- la dice lunga sulla disperazione sociale che percorre soprattutto la Tunisia "profonda". Oltre ai gravi effetti della crisi economica mondiale, pesa il fatto che i governi provvisori, fino all'attuale, non abbiano neppure provato a inserire nella loro agenda politica i temi della giustizia sociale: le enormi disuguaglianze, le sacche di povertà assoluta, il tasso altissimo di disoccupazione, soprattutto giovanile, la frattura drammatica fra le regioni costiere sviluppate e le regioni interne abbandonate. Né hanno adottato misure per garantire qualche forma di protezione sociale a chi è senza lavoro e reddito o ha un lavoro precario e informale. Tutti costoro, cioè la maggioranza della popolazione, tuttora non hanno diritto neppure all'assistenza sanitaria gratuita.

E' questa disperazione, per meglio dire il senso di abbandono e di morte sociale, aggravato dalle ferite inflitte alla propria dignità da questo o quel potere, che spinge tunisini e tunisine (ma il fenomeno riguarda anche il Marocco e in proporzioni più elevate l'Algeria) a "prendere la parola" nel modo più spettacolare e letale. Per dire solo delle due notizie più recenti che sono riuscite a insinuarsi nel muro di silenzio, in ottobre prima un uomo, impiegato in un ufficio pubblico, poi una donna, dipendente della Tunis Air, entrambi licenziati, si sono dati fuoco dopo aver cercato in tutti i modi, anche con lo sciopero della fame, di protestare contro l'espulsione dal lavoro.

Del tutto simili alle loro sono le storie di un Angelo Di Carlo o di un Florin Damian, per citare solo gli ultimi casi italiani. Entrambi erano caduti nel baratro della disoccupazione intorno ai cinquant'anni. Entrambi, cittadini tutt'altro che passivi, le avevano tentate tutte per denunciare l'ingiustizia subita e difendere la loro dignità, prima di compiere il gesto spettacolare e simbolico per eccellenza, l'uno davanti a Montecitorio, l'altro davanti al Quirinale.

Non sono i soli: il nuovo ciclo di autoimmolazioni di protesta, che parte dall'altra riva del Mare nostrum e si espande in alcuni paesi europei e perfino in Israele, in Italia s'inaugura almeno con Noureddine Adnane, che si dà fuoco per strada a Palermo il 10 febbraio 2011. La sua vicenda somiglia in modo impressionante a quella di Bouazizi: come lui venditore ambulante, Noureddine, di origine marocchina, compie l'atto atroce dinanzi a un gruppo di vigili urbani che intendeva sequestrargli la merce. Non era la prima volta che egli era vessato e umiliato da quella "squadretta", capeggiata da un tale che si era dato il nome di battaglia di Bruce Lee: un militante di Forza Nuova, con regolare svastica tatuata sul braccio.

Fin da allora si poteva intuire che il suicidio fatale di Bouazizi era una delle espressioni, niente affatto isolata, di un nuovo ciclo di autoimmolazioni di protesta che, muovendo dai paesi del Maghreb, già aveva lambito la sponda mediterranea a settentrione. Le frontiere artificiose elevate a impedire la libera circolazione delle persone non bloccano la circolazione di processi economici, sociali, culturali e con essi anche di correnti suicidogene.

E' questa considerazione che ha spinto chi scrive a dedicare a questo tema il suo ultimo lavoro: Il fuoco della rivolta. Torce umane dal Maghreb all'Europa (Dedalo, 2012). Ci era bastato osservare la realtà, coglierne gli indizi, coltivare la convinzione della non-separatezza fra ciò che accade al di là e al di qua del Mediterraneo, sapere quanto universali siano non solo gli effetti della crisi economica, ma anche la siderale distanza delle istituzioni dai bisogni dei cittadini, il sentimento di morte sociale, le ferite alla dignità personale inferte da poteri che siano o no apertamente autoritari.

E' singolare che da noi quasi nessuno -neppure i sociologi, per non parlare dei politici- sia capace di mettere in rapporto l'autoimmolazione pubblica di Bouazizi e le tante altre che si susseguono nei paesi del Maghreb con quelle, in Italia, di Noureddine Adnane, del tunisino Nadir, dell'albanese Georg Semir, di altre persone, immigrate come autoctone; nonché con la miriade di simili atti suicidari di protesta che si susseguono in Francia, in Grecia, in Israele?

Certo, questa indifferenza potrebbe essere l'effetto della rimozione di un fenomeno perturbante -nel senso psicoanalitico dell'espressione- ma di sicuro è il segno di un grave difetto di lungimiranza. Per tornare alla transizione tunisina, che non si colga quanto i suoi possibili esiti ci riguardino è una delle tante prove dello spirito provinciale che caratterizza il nostro paese. Come ha scritto di recente Nicolas Beau -coautore di Notre ami Ben Ali e de La régente de Carthage (La Découverte, 1999 e 2009)- le «élite politiche e intellettuali della Tunisia legale hanno dimenticato il paese reale». Hanno presto archiviato il dato storico che a far cadere il regime benalista sia stato il sollevamento della Tunisia "profonda" contro la povertà, la corruzione, gli apparati repressivi. Ma non si potrebbe dire lo stesso delle élite nostrane, incuranti dello stato del paese reale, devastato dagli effetti delle loro grette politiche di austerità?

Annamaria Rivera

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