Una riflessione su quello che sta accadendo a Gaza. Le reazioni in Italia e il parere di alcuni immigrati.

Non solo le centinaia di vittime, per lo più civili e minori, non solo la distruzione di case e dei centri di comunicazione, definiti "obbiettivi militari", ma - in questa fase di tregua in cui la tensione resta alle stelle - un altro salto in avanti verso la rinuncia ad una risoluzione del conflitto. Questo il risultato delle operazioni militari condotte sulla striscia di Gaza dall'aviazione e dalla marina israeliane.

Una offensiva iniziata con l'uccisione mirata di uno degli esponenti di Hamas più disponibili all'interlocuzione, proseguita con il lancio, da parte palestinese, di razzi aventi soprattutto un obbiettivo propagandistico interno, ed esplosa con operazioni militari in grande stile. Una offensiva, quella israeliana, partita non casualmente subito dopo le presidenziali Usa e in prossimità di una campagna elettorale che dovrebbe ridefinire l'assetto politico a Tel Aviv.

In un paio di anni molte cose sono cambiate nell'area mediorientale. Le primavere arabe, non avendo ancora realmente risolto i problemi derivanti da una crisi interna, cercano di rafforzare la propria discontinuità col passato, schierandosi più concretamente con i palestinesi. Contestualmente, in quelle stesse piazze israeliane che in un passato recente si erano riempite di giovani indignados che protestavano contro la crisi, si è ritrovato oggi l'antico capro espiatorio. Il tutto, in una logica della paura che rende difficile se non impossibile azioni politiche di ampio respiro. Quella che si è aperta è una fase ancora più pericolosa che in passato, si è ampliata anche l'area dei Paesi coinvolti e degli interessi in ballo. Non solo nei paesi del Maghreb e del Mashreff, ma in un area geografica che dall'America Latina si spinge fino all'Asia Sud Orientale, serpeggiano sentimenti di ostilità verso il governo israeliano che, come nel caso del Venezuela e dell'Ecuador, si sono già tradotti nella sospensione delle relazioni diplomatiche. Nei paesi a maggioranza musulmana tutto questo rischia di produrre effetti ancora più devastanti. La "vecchia Europa" tace o balbetta. Solidarietà incondizionata ad Israele e al suo "diritto a difendersi", pietà per i civili morti a Gaza. E intanto, in numerose piazze, non solo migranti, hanno manifestato condannando le stragi compiute nella fascia di terra più densamente popolata al mondo, e denunciando la "complicità occidentale". Abbiamo ritenuto utile raccogliere alcune loro voci, diverse, per paese di provenienza, per approccio e per analisi. Provando a rompere stereotipi si è cercato di capire come è vissuta, anche intimamente, la violenza che si perpetra in quest'area.

Maha è una giovane tunisina, laica, e ha trascorso gran parte della propria vita in Italia. «Solo nell'ultima settimana gli attacchi israeliani  hanno portato alla morte di 30 uomini e di 35 bambini, età media di 1 anno, tutti civili. I mass media hanno parlato di guerra tra Israele e Palestina, ma non è il termine appropriato. Qui non c'è una lotta ad armi pari e gli attacchi sono partiti dagli israeliani che hanno armi, esercito e soprattutto  il sostegno USA. Questo è un vero proprio genocidio. L'alleanza tra Israele e gli Usa si sta rivelando sempre più negativa e non è a questo che si deve la tregua. L'unico stato che ha cercato di fermare gli scontri e aiutare il popolo palestinese è stato l'Egitto. Il presidente egiziano ha chiesto a Washington di rompere l'alleanza con Israele ed ha incontrato l'ambasciatore Israeliano in Egitto, per cercare di trovare una soluzione ed arrivare alla tregua.

Al di là dei fatti, sul campo, restano gli interrogativi sugli obiettivi reali di Israele e su quelle che saranno le conseguenze a livello regionale e internazionale. L'Egitto ha risposto immediatamente. Posizioni dure anche da parte altri paesi arabi. La comunità internazionale è invece rimasta bloccata nelle pastoie della diplomazia e dei veti incrociati. L'Italia, e non c'è di che stupirsi , ha evitato di prendere posizione. Le manifestazioni che si sono svolte a Roma e anche nelle altre città, numerose e spontanee, sono state appunto organizzate dal basso, dalla gente. I media che contano le hanno ignorate. Nessuno ha parlato di quel che accade realmente a Gaza e non è stato mai dato spazio sufficiente al problema e alle possibili conseguenze. Nel 2011, nel mio Paese, la Tunisia ma anche in gran parte del Nord Africa, è esplosa la primavera araba che ha portato a governi più democratici. I governi dei paesi occidentali hanno sostenuto le nostre rivolte e sono intervenuti nella guerra in Libia, ma lo hanno fatto fondamentalmente per i loro interessi. Ed è per il loro interessi che rimuovono la questione palestinese. Ma a un Paese che giustamente dedica una gioranta del suo calendario alla "memoria" non dovrebbe sfuggire che quel che sta accadendo nella striscia di Gaza assomiglia pericolosamente agli stermini che si vogliono ricordare. Noi tunisini appoggiamo la Palestina perché lotta da sola e senza armi, io lo faccio ma non perché Musulmana, perché è una causa che riguarda anche me e ogni mio istante».

Rasha è italo egiziana e parla anche a nome del Centro di solidarietà musulmana: «Non esiste nessun diritto per i bambini e le donne di Gaza. Per le giornate del 20 novembre, Giornata Mondiale per i Diritti dell'Infanzia e dell'Adolescenza, e del 25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne, la comunità internazionale ha scritto con una penna trasparente e indelebile: " eccetto i bambini e le donne di Gaza". Si! Ne sono convinta e penso di non essere l'unica a leggere tra le righe, basta focalizzarsi sui numeri dei morti e notare che la maggioranza a morire sono donne e bambini di una terra dimenticata da tutti, dove ogni azione è lecita, per salvaguardare i diritti di "altri". Provo per un attimo a staccare il mio cuore distrutto dal dolore e a ragionare a mente fredda. Ma un unico quesito mi risulta chiaro nella mia mente annebbiata dalle immagini di distruzione e sangue. Se ciò che accade a Gaza fosse accaduto in un'altra parte del mondo? Immaginiamo per un attimo l'Italia tra 20 anni. Dato il basso tasso di natalità la maggioranza nel paese non saranno più italiani di origini italiane. E se i nuovi cittadini chiedessero di modificarne il nome? Per esempio chiamandola "Etnica", invece di Italia. E se chiedessero di allontanare i vecchi cittadini? Mandandoli per esempio a vivere tutti in Sicilia o costringendoli a vivere come profughi in giro per il mondo. Non oso immaginare le conseguenze di una tale situazione. Sono nata e cresciuta in Italia, sono figlia di immigrati, sono musulmana, sono donna e nel cuore bambina, sono italiana e mai vorrò essere "etnicana". Ed è con questo spirito che a Milano cerchiamo di portare la nostra solidarietà al popolo palestinese. I mezzi che abbiamo a disposizione sono pochi, ma con presidi, cortei e sensibilizzazioni, cerchiamo di aprire gli occhi ai milanesi, che ormai abituati a sentir parlare di massacri nel Medio Oriente, sono diventati indifferenti a tutto. Purtroppo ciò è dimostrato dal numero sempre minore di partecipazione, gira e rigira, siamo sempre gli stessi! Ma come si suol dire "Non può piovere per sempre" e prima o poi la pioggia di razzi su Gaza cesserà».

Halim è bangladese e gestisce una piccola attività commerciale nella periferia romana. Non appena ha saputo di un presidio per Gaza, ha abbassato la saracinesca in orario di lavoro e se ne è andato in piazza.«Non mi piacciono gli slogan religiosi, non mi piacciono le invocazioni al martirio e non voglio che tutto venga raccontata come una questione religiosa. In tutta la Palestina, in particolare a Gaza, la sinistra ha perso e ora governa Hamas che aiuta i bisognosi e cerca di risolvere le emergenze continue ma vuole l'egemonia. Anche in Israele stava nascendo uno scontro di classe. La crisi la pagano anche gli ultimi arrivati lì e lo Stato non li aiuta anzi li ha anche bastonati. Questo accanimento contro i palestinesi di Gaza è un modo per spostare l'attenzione, per non far capire da una parte e dall'altra che il problema è il dominio e lo sfruttamento. Molti miei connazionali non accettano che io dica questo ma il fatto è che si sta preparando la prossima guerra imperialista. Potrebbe esplodere a Gaza, in Siria o in Iran, o anche in uno dei paesi in cui si è data una verniciata di democrazia ma la disoccupazione cresce e la speranza muore. Io sogno ancora un mondo in cui tutti si sia capaci di ribellarci a chi ci comanda e ci sfrutta e considero un mio compagno di lotta anche un lavoratore israeliano. Ma quando le bombe cominciano a piovere e in rete arrivano immagini che fanno tanto male mi domando se servono a qualcosa queste speranze. Le scene di morte mi fanno male, mi fanno pensare ai miei figli, a mia moglie e ai miei genitori che intanto invecchiano. Vedere anche italiani con le bandiere palestinesi insieme alle bandiere rosse mi ha fatto bene ma so che la tregua è solo momentanea. So che presto si ricomincerà a combattere, non per la libertà ma per sottomettere e sterminare. E anche in Italia quelle persone morte torneranno ad essere dimenticate, come persone che non contano e che non ci riguardano anche se erano neonati».

Stefano Galieni

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