In Medioriente sembra non muoversi nulla. Anche quando il rumore delle armi 
si fa più insistente oppure di spiragli per la diplomazia si fanno più ampi, 
tutto alla fine ritorna in quel ciclo identico a cui siamo abituati da decenni: 
Israele che teme per la sua sicurezza ed è pronto a tutto per difendersi (mentre comunque gli 
insediamenti dei coloni continuano); il mondo arabo in preda a speranze, divisioni, rabbia ed 
estremismo; gli Stati Uniti interessati a mantenere l’egemonia ma ondivaghi nella concreta strategia 
politica; il rischio di una guerra generalizzata con armi di distruzione di 
massa sempre possibile; la ruota di azioni, reazioni, ritorsioni che non finisce 
mai di girare. 
Eppur si muove. È necessario essere capaci di vedere nelle pieghe più 
riposte, per non perdere completamente la speranza. Due le novità di questi 
ultimi giorni: la nascita del nuovo governo israeliano e la visita di Obama 
nella regione. Intendiamoci, per osservare qualche mutamento bisogna usare il 
binocolo soprattutto per chi non conosce la struttura della politica e della 
società dello Stato ebraico. 
La novità del nuovo governo israeliano riguarda soprattutto un aspetto 
decisivo ma trascurato nelle analisi dei media occidentali: per la prima volta 
da anni non sono inclusi nell’esecutivo gli haredim, gli ultrà ortodossi, sempre 
presenti e condizionanti qualsiasi compagine. Questo è positivo perché libera 
molte risorse finanziarie e depotenzia il governo da una carica ideologica 
pericolosamente proiettata verso una identità etnica e religiosa difficilmente 
compatibile con la democrazia. 
Un altra novità è l’affermazione de “La casa ebraica”, il partito dei 
religiosi “normali”, abbastanza simile a una democrazia cristiana: questa forza 
politica però è favorevole agli insediamenti, una questione dirimente e di grande ostacolo 
sulla via di qualsiasi trattativa con i palestinesi (che in questa fase è stata 
affidata a Tzipi Livni). 
In quanto a Obama, dopo aver affermato con vigore il suo appoggio alla 
difesa e ai diritti di Israele, alla campagna contro l’atomica iraniana e alla 
lotta contro il terrorismo, (“le bambine di Sderot hanno diritto come le mie 
figlie di dormire tranquille senza l’incubo dei missili da Gaza”, parole già 
sentite che comunque dovrebbero valere anche viceversa), ha affermato che la 
visione dei fondatori di Israele può realizzarsi solo se vi è uno stato 
palestinese, che solo con la pace Israele può prosperare e che l’occupazione, la 
violenza dei coloni e in generale la presenza militare sono fattori negativi. 
Non si è però andati oltre. La cifra della situazione globale e non solo 
mediorientale la dà Elie Wiesel parlando di inquietudine: “Credo che tutto il mondo sia 
pervaso da inquietudine, un’inquietudine che è militare, psicologica, culturale. 
Anche perché ciò che accade in certi Paesi dell’Asia o dell’Africa è all’insegna 
del sangue e della atrocità”.
Certamente quella di inquietudine non è una categoria politica, ma descrive 
una situazione. I veri statisti dovrebbero incanalare questa inquietudine e 
portarla sui binari della razionalità, della diplomazia e della collaborazione. 
Tutte cose che sembrano perdute. [PGC]