La particolarità della guerra in Siria è che ogni giorno la situazione cambia. E non sempre al 
meglio. L’impressione, da almeno sei mesi a questa parte, è che a fare la 
differenza non siano più i ribelli dell’Esercito Siriano Libero (ESL), bensì i gruppi radicali 
che spesso e volentieri hanno interessi diversi da quelli per i quali tutto è 
iniziato. 
La rivoluzione “romantica” per il rispetto dei diritti umani, l’uguaglianza e 
la libertà è solo un lontano ricordo dei tempi andati. O per lo meno una 
prerogativa di pochi, che per lo più vivono in Turchia o in Occidente, Italia 
compresa. È diventato difficile sentire da chi è impegnato al fronte queste 
parole. L’unica parola ricorrente, da sei mesi a questa parte, è “alawita”. Non 
ci sono più i buoni e i cattivi, i forti e i deboli. Il conflitto, sempre 
più settario, è solo una questione tra sunniti (i ribelli) e alawiti (il gruppo 
religioso del presidente Bashar al-Assad che domina il Paese). 
Niente di sconvolgente, purtroppo. Il conflitto va avanti da quasi due anni e 
mezzo. Tanti, abbastanza da far radicalizzare anche chi è sempre stato, o si è 
sempre definito, moderato. La popolazione civile che ha deciso di non fuggire 
nei campi profughi dei Paesi confinanti o è tornata a casa dopo mesi di 
“esilio”, si trova a fronteggiare violenze di ogni genere. Quotidianamente e 
senza distinzioni. Non più solo da parte del regime, ma anche da parte dei tanti 
gruppi di criminali che si nascondono sotto la bandiera dell’ESL. Un problema 
che i capi militari dell’opposizione hanno ben presente ma di cui non riescono a 
venire a capo. 
Ma chi ci racconta di una Siria che combatte per difendere il diritto di 
tutti alla libertà, probabilmente in Siria non c’è mai stato. O per lo meno 
negli ultimi tempi. I ribelli dell’Esercito Siriano Libero non sono più 
uniti. Non lo sono mai stati, ma fino allo scorso ottobre, quando la guerra 
ancora infuriava, gli scontri erano quotidiani in tutto il Nord e le energie 
principali venivano spese a combattere, non si uccidevano tra loro. Poi, quando 
la guerra è diventata statica, le posizioni “quelle” e la situazione, almeno sul 
fronte dei combattimenti “vis-à-vis”, hanno iniziato a litigare tra loro per chi 
doveva controllare “cosa” e “dove”. Molti dei cittadini che se ne erano andati 
da Aleppo durante i combattimenti sono tornati nelle loro case 
agli inizi di ottobre e se non erano distrutte le hanno trovate saccheggiate. 
Con l’alto numero di ribelli che giravano armati è stato difficile per loro 
collegare quei furti a criminali qualsiasi. Hanno subito puntato il dito contro 
quei giovanotti armati. Ovviamente senza prove, ma non è bastato a far declinare 
la reputazione dei ribelli verso una popolazione civile che nello stesso momento 
si è dovuta trovare anche a far fronte al taglio di acqua e luce. Insomma, una 
popolazione stremata e impaurita non solo dalle bombe del 
regime ma anche dal freddo inverno in arrivo. Che non ha capito, in una 
situazione così drammatica, le lotte di potere tra le varie fazioni 
dell’ESL.
Le Corti Islamiche facenti capo a quello o quell’altro gruppo, più o meno 
potente, hanno iniziato ad arrestare interi battaglioni di ribelli. Quelli che 
avrebbero dovuto amministrare le aree cosiddette “liberate” hanno iniziato uno 
stillicidio ritorsioni reciproche. Un gruppo arrestava un altro e così via, 
creando un senso di confusione difficile da capire. Tutto questo ha contribuito 
a rendere ancora più profondo il senso di disprezzo da parte di chi non voleva 
stare né da una parte né dall’altra, ma senza volerlo si trovava in mezzo.
Per questi motivi - e altri - ha trovato vita facile l’estremismo, che in 
questi casi diventa armato e religioso. Quell’estremismo che taglia le mani a 
chi ruba e uccide chi è accusato di essere una spia. Senza tentennamenti. Spesso 
e volentieri in nome di Dio. Non è una novità che la popolazione civile, 
esasperata da una guerra che non vede fine, si sia messa dalla parte dei 
“cattivi”. Il numero dei combattenti volontari di Jabhat 
al-Nusra, il braccio di Al Qaeda in Siria, considerata un’organizzazione terroristica 
dagli Stati Uniti, ha iniziato a crescere. È grazie poi ai petrol-dollari 
che riceveva e riceve dai paesi del Golfo (Arabia Saudita in testa) che questa 
fazione ha iniziato uno sforzo “umanitario” per aiutare la popolazione in 
difficoltà, distribuendo farina per il pane e punendo chi commetteva crimini o 
anche semplici torti, come saltare la fila per il pane, che però facevano 
infuriare i civili, già con i nervi a fior di pelle
Accanto a Jabhat al-Nusra, a stragrande maggioranza composta da siriani, è 
nata la brigata el-Muhajirin, “i migranti”, ossia una formazione 
estremista composta da “mujahedin” provenienti dall’estero. Il loro unico 
obiettivo è ash-Sham, la grande Siria. E il regime di Bashar al-Assad è solo un 
ostacolo a questo scopo. Al suo interno è composta dal gruppo dei ceceni, dei 
libici, dei tunisini. E molti altri. Oltre che dagli europei, tra cui alcuni 
italiani, per la maggior parte con doppia cittadinanza. Gente che combatte per 
una ideologia religiosa più che per una Siria libera e democratica. Il villaggio 
al confine di Atme, tristemente famoso per il campo profughi di sfollati 
interni, oggi sembra una piccola Kandahar ai tempi dei talebani, con combattenti 
stranieri che vestono kurta, pakol e kalashnikov. E ovviamente donne in giro da 
sole non se ne vedono.
Quale sia ad oggi il vero potere dei ribelli più “moderati” è difficile da 
capire. Come del resto è difficile capire cosa e dove controllano. I casi di 
rapimento/detenzione di giornalisti da parte dei gruppi più radicali non si 
contano più. Nella maggior parte dei casi il rilascio avviene dopo qualche 
giorno senza grossi problemi. O per lo meno fino ad adesso.
Ma c’è anche il caso dei sette giornalisti che sono spariti nel nulla e con 
loro cinque operatori umanitari. In totale, mancano all’appello, 13 occidentali. 
Se siano stati presi dal regime o da qualche gruppo della galassia radicale 
nessuno lo sa. L’ultimo caso è quello di un paio di settimane fa, quando due 
giornalisti francesi sono stati rapiti sulla strada per Aleppo. L’autista ha 
detto che si trattava di “criminali”. Ma chi ad Aleppo ha lavorato sa benissimo 
che un check-point gestito da criminali sulla strada Mareea–Aleppo dove 
viaggiano centinaia di macchine di combattenti ogni giorno è semplicemente poco 
credibile. È più probabile un gruppo di Islamisti o di governativi. In questo 
secondo caso sarebbe una conferma in più che i ribelli non riescono a 
controllare le zone che hanno conquistato. E non stiamo parlando di un villaggio 
nella campagna di Idlib ma della strada principale tra il confine Turco di Kilis 
ed Aleppo. (1 – continua).
Andrea Bernardi