Il confronto sulla riforma normativa dell’impresa sociale è stato monopolizzato da temi generali e questioni specifiche che hanno investito soprattutto la dimensione più strettamente economica di questo modello d’impresa. Il carattere nonprofit, il tetto alla distribuzione degli utili e alla remunerazione del capitale hanno assorbito buona parte dei commenti e delle prese di posizione. Argomenti certamente rilevanti e che, per certi versi, hanno il merito di porre sotto una nuova luce temi classici del dibattito, anche in ambito scientifico. (http://irisnetwork.it/2015/04/leconomia-politica-dellimpresa-sociale/)

Ma per evitare una deriva tecnicista che si risolve in qualche punto percentuale in più o in meno del “cap” al non-distribution constraint può essere utile ricercare altri elementi della nuova normativa che sviluppano il profilo più marcatamente politico del terzo settore e dell’impresa sociale. La missione – non solo ribadita, ma addirittura rafforzata – di perseguire obiettivi di “interesse generale” da parte di queste organizzazioni richiede infatti di operare attraverso la produzione di beni e servizi e, al tempo stesso, di agire in sede di definizione delle politiche, integrando ed arricchendo la funzione pubblica accanto alle diverse articolazione della Pubblica Amministrazione.

Il nuovo articolato della riforma – che ricordiamo è stato approvato dalla Camera del deputati ed ora verrà trasmesso al Senato per ulteriore discussione e approvazione – presenta un interessante “combinato disposto” su questo punto in due diversi articoli.

Il primo è la lettera l) del primo comma dell’articolo 4 laddove si indica che il riordino della disciplina del terzo settore sia orientato anche a valorizzare il ruolo degli enti nella fase di programmazione, a livello territoriale, relativa anche al sistema integrato di interventi e servizi socio-assistenziali nonché di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, paesaggistico e ambientale e individuare criteri e modalità per l’affidamento agli enti dei servizi d’interesse generale, improntati al rispetto di standard di qualità e impatto sociale del servizio, obiettività, trasparenza e semplificazione, nonché criteri e modalità per la valutazione dei risultati ottenuti. Si ribadisce quindi in modo molto chiaro il ruolo di policy maker in ambiti chiave delle politiche di sviluppo. Non solo quelle di welfare (già riconosciuto da normative come la legge n. 328/00) ma anche in ambito culturale, paesaggistico, ambientale, ecc.

Il secondo è il “famoso” comma 3 dell’art. 7 laddove si afferma che “Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali sentiti gli organismi maggiormente rappresentativi del terzo settore predispone linee guida in materia di bilancio sociale e di sistemi di valutazione di impatto sociale delle attività svolte dagli enti del Terzo settore, anche in attuazione di quanto previsto dall’articolo 4, comma 1, lettera l). Per valutazione di impatto sociale si intende la valutazione qualitativa e quantitativa, sul breve, medio e lungo periodo, degli effetti delle attività svolte sulla comunità di riferimento rispetto all’obiettivo individuato”. La notorietà di questo passaggio è legata alla formalizzazione, in termini normativi, del concetto di impatto sociale e delle modalità attraverso cui può essere misurato. L’intento è di saldare la valutazione delle performance all’interno di un quadro di policy che gli stessi soggetti di terzo settore e d’impresa sociale sono chiamati a definire “di concerto” con la Pubblica Amministrazione. Un aspetto “quadro” della legge delega che merita di essere ulteriormente approfondito nelle sue implicazioni.

Nella formulazione attuale lo si può considerare il framework all’interno del quale avviene non solo la co-programmazione delle politiche ma anche il co-design e la co-valutazione degli interventi. Un aspetto tutt’altro che marginale a fronte di una stagione programmatoria che, soprattutto in campo sociale, ha sofferto il distacco dalle più concrete pratiche di negoziazione legate all’assegnazione delle risorse e alle definzione di modelli di servizio che, per la loro complessità, richiedono la mobilitazione di competenze di tra attori diversi.

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