Sarà capitato anche a voi di avere ospiti a casa, amici stretti o conoscenti. C’è sempre quella sorta di "ansia da prestazione" che sale: abbiamo fatto tutto il possibile? La casa è in ordine? Piacerà la cena? Ci siamo ricordati i gusti e le abitudini alimentari di tutti? Come ci vestiamo? Si sentiranno a loro agio? Si sentiranno accolti? Iniziamo giorni, ore prima a organizzarci più o meno accuratamente in base agli ospiti che aspettiamo e all’occasione: sistemiamo, puliamo, "educhiamo" la famiglia su come comportarsi. Li accogliamo con più o meno ansia che tutto vada bene, che la nostra casa sia accogliente e che passino del tempo di qualità come fossero a casa loro. L’ansia da prestazione non si esaurisce però con la serata, perché alcune ore dopo, ci teniamo a ringraziarli, a dirgli quanto piacere ci abbia fatto averli a casa nostra, e come sia stato bello trascorrere del tempo con loro. Ecco... se nella vita vissuta, reale, vera ci comportiamo così, perché questo non avviene quasi mai con gli "ospiti" più importanti per le nostre organizzazioni, i donatori? Quante sono le organizzazioni che sentono l’ansia da prestazione? E che soprattutto hanno iniziato a gestirla?  

Donor experience: focalizzare l'attenzione sull'accoglienza del donatore

Negli ultimi anni, anche nel mondo delle organizzazioni non profit, e nel fundraising, è emersa la consapevolezza di come sia importante e fondamentale "l’esperienza che il donatore fa dell’organizzazione", nota come donor experience, che nel mondo profit esiste da molto tempo come customer experience. L’attenzione sul tema è quindi aumentata, a ragione, e si moltiplicano interventi e corsi, come quello organizzato da Confinionline il 10 marzo scorso a Milano con Gian Carlo Mocci, Presidente di AICEx - Associazione Italiana Customer Experience. Seguo con molto interesse il tema, lo reputo fondamentale per sviluppare al meglio la relazione con i donatori e l’implementazione della funzione fundraising nelle organizzazioni non profit. Da qualche tempo però mi chiedo se le organizzazioni siano realmente pronte a ricevere i donatori, e se abbiano mai ragionato di un “sistema di accoglienza”.  Le organizzazioni con cui collaboro, lo sentono nominare spesso, ultimamente è il nostro mantra, così come le domande: siamo pronti ad accogliere i donatori? Cosa stiamo facendo per preparare la nostra organizzazione? Stiamo presidiando tutti gli ingressi (on line ed offline)? A riguardo ho trovato molto interessante, e tragicamente divertente, l’ultimo articolo dell’amico e collega Davide Moro su questo blog Chi c’è oggi in segreteria? Nessuno!? perché racconta la realtà di molte organizzazioni. A un certo punto Davide scrive una grande verità: "Chi accoglie ha l’importante compito di "raccogliere" una persona dall’esterno e farla entrare piacevolmente nella nostra realtà, spalancare le porte della nostra organizzazione verso l’altro diventando un tutt’uno con lui. Deve farlo sentire a proprio agio e facilitare il più possibile l’esperienza con la nostra realtà".  

Saper accogliere nasce da una buona cultura manageriale

Dal mio punto di osservazione, sicuramente non esaustivo, le organizzazioni non profit, anche quelle che ritengono di saper fare fundraising, fanno molto poco a riguardo. Anche qui, non è una questione di tecniche, ma prima di tutto di cultura manageriale, a livello di CdA e Consigli Direttivi, e di cultura organizzativa nei livelli più operativi. Per il fundraiser è il fondamento del proprio agire, è l’asse portante del proprio lavoro: è la cura delle relazioni con i donatori. Ma cosa succede se questa consapevolezza, se la donor experince non è condivisa, socializzata all’interno dell’organizzazione? Se ci sono livelli di consapevolezza diversi? Se quello che è fondamentale per il fundraiser non rientra né nella cultura manageriale, né in quella organizzativa?  Succede che si perdono donatori! Sì, si perdono, e per almeno un paio di motivi:
  1. Non riusciamo a intercettarli. Pensiamo a un ente che ha anche uno spazio adibito alla raccolta di abiti usati. Uno entra, nessuno in atrio lo accoglie e ancora peggio lo saluta, legge un cartello con scritto “deposito abiti”, anche lì nessuno lo accoglie in alcun modo, lascia la sua borsa tra le altre, e com’è entrato se ne esce. Chi era questo donatore? Viene spesso? Dona anche denari? Nessuno lo sa, è un donatore che resta nell’anonimato: un patrimonio relazionale che va disperso.
  1. Non sentendosi accolti se ne vanno, non smettono di donare, ma semplicemente lo vanno a fare da un'altra parte. Lo stesso donatore di abiti di prima, essendo il "deposito abiti" in fase di ristrutturazione, ha scritto una mail all’ufficio fundraising, in cui comunica che visto che non c’é rispetto ne per il suo agire, ne per i suoi abiti "abbandonati nella stanza come tanti altri" (questa la sua percezione non sapendo che si era in fase di ristrutturazione), li avrebbe portati altrove, visto che altre organizzazioni fanno la stessa cosa. Stupore, rammarico, rabbia per la mail… Non è così, questo donatore ci vuole bene: si è preso il disturbo di comunicarci che non si è sentito accolto, e ci sta chiedendo attenzioni.
Cerchiamo, quindi, di mettere la creazione di un "sistema di accoglienza del donatore" (cultura manageriale), strategico per lo sviluppo del fundraising e del posizionamento dell’organizzazione (strategia di branding), tra le priorità della nostra agenda. Basterebbe iniziare con tre semplici mosse, spesso date per scontate, ma poco controllate:
  1. presidiare tutti i punti di accesso all’organizzazione, analizzandoli per capire dove il donatore crea la propria opinione sull’organizzazione, decidendo così di sostenerla;
  2. accogliere il donatore nel modo più opportuno, sia presso la nostra sede (cultura organizzativa dell’accoglienza), che nel web (sito internet e social);
  3. curare la relazione prima, durate e dopo la donazione.
Il fundraiser da solo non può “cambiare il mondo” dell’organizzazione non profit in cui opera, assieme al management però può fare molto per provare a raggiungere l’obiettivo. Non è quindi una questione di tecnicismi, ma soprattutto di cultura e modelli manageriali, che devono necessariamente cambiare se si vuole sviluppare veramente il fundraising.

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