Ha ancora senso parlare di principi e tecniche del fundraising? Cercare di definire fin nei minimi dettagli chi è il fundraiser e che lavoro fa? Onestamente, e con tutta franchezza, mi sono stancata dell’argomento… mi sembra ci stia sfuggendo qualcosa. Sarà l’età anagrafica, quando s’invecchia c’è il rischio di diventare insofferenti, per di più se si è donne. Sarà che sono quasi 15 anni di mestiere, sta di fatto che credo che il nodo, ora come ora, non sia più avere dei bravi fundraiser, preparati, esperti, "saccenti" di ogni tecnica e dinamica dall’offline all’online, e di ogni qualsivoglia mercato (che alla fine sono sempre quei 4), strumento, o strategia (che alla fine sempre al tripode del fundraising e al CIVES si arriva).  

Mi pare, che oggi, il nodo stia altrove.

Sicuramente, è utile continuare a fare cultura per promuovere sia la professione, che il ruolo che il fundraiser può avere all’interno di un’organizzazione (se è interno) o a supporto della stessa (se è consulente). È, infatti, solo da poco tempo che il fundraising, e con esso il professionista che se ne occupa, è stato riconosciuto arrivando a essere inserito all’interno della legge di riforma del Terzo Settore (d.lgs.117/2017 Codice del Terzo Settore, art. 7) Inoltre, continuare a parlarne aiuta le organizzazioni a conoscerci, e magari ad arrivare alla consapevolezza di avere necessità di un fundraiser. A riguardo molto interessante che sul primo numero del nuovo inserto del Corriere della Sera "Buone Notizie", si trovi un’intera pagina dedicata alla professione dal titolo "Farò il fundraiser". Quindi, sì ha ancora senso continuare a parlarne, ma credo che farlo in questi termini raggiunga il "solo fine" di legittimare la professione, cosa fondamentale… Ma c’è un "ma", un tassello molto spesso mancante o molto poco affrontato: le organizzazioni. Sì, quelle realtà che danno o potrebbero dare lavoro ai fundraiser.  Queste, infatti sono quasi sempre escluse dalle riflessioni sul fundraising, o vi entrano molto marginalmente.  

La persona giusta nel posto sbagliato

A mio avviso però, se si è convinti che il fundraising e il fundraiser possano avere un ruolo determinante, o almeno al pari di altre funzioni strategiche all’interno dell’organizzazione, per permetterle di crescere e svilupparsi, non possiamo più pensare che il focus possa essere solo "avere un bravo fundraiser". L’esperienza degli ultimi anni, e ancor più degli ultimi mesi, conferma che possiamo avere il più bravo professionista che ci sia in giro, un così detto "Senior", ma se l’organizzazione è pronta solo a parole a ospitarlo, se non ha veramente compreso le potenzialità della funzione e del professionista, se non gli da spazio e strumenti d’azione, se non è in grado di gestire la complessità relazionale che questa scelta comporterà nella sua organizzazione, non ce ne facciamo nulla di sapere "chi è" il fundraiser, "che lavoro fa", se è junior, middle o senior. Semplicemente, è la persona giusta in un posto sbagliato. E questo succede ovunque: nei piccoli enti di provincia, nelle associazioni di quartiere, nelle organizzazioni centenarie e così dette "grandi" che stanno spesso nelle città. Succede in tutte quelle organizzazioni che non nascono "sul fundraising", ma che lo fanno entrare quando hanno già diversi anni di vita, quando il loro "DNA" si è formato e basato su altro. Se si è convinti che il fundraising possa veramente contribuire a cambiare le organizzazioni non profit, il terzo settore, le comunità in cui viviamo, credo ci si debba iniziare a chiedere dove stia veramente il focus, o se ce ne possa essere solamente uno. Credo sia giunto il momento di guardare anche altrove, di allargare gli orizzonti, e che sia sempre più importante osservare con attenzione le organizzazioni, le comunità.  
Come si portano le organizzazioni a fare fundraising? Veramente basta "solo" convincere e coinvolgere il consiglio direttivo od il CdA? Sono loro gli unici veri decisori all’interno di un’organizzazione? Quali sono i processi decisionali? Sono ovunque uguali?
Forse è un altro mestiere, può darsi, ma è quello di cui si sente bisogno oggi. Serve qualcuno che:
  • sappia attivare le energie presenti;
  • sappia coordinare i gruppi;
  • sappia gestire i conflitti, interni prima che esterni;
  • abbia un’intelligenza emotiva e relazionale spiccate;
  • sappia essere "timoniere in un mare in tempesta", quella che il suo lavoro, inevitabilmente, "porterà" nell’organizzazione.
Perché succederanno delle cose, dentro e fuori le organizzazioni, cose alle quali queste non sono preparate: nessuno glielo ha spiegato, perché gli avevano sempre detto che se prendeva un fundraiser "bravo" e "competente", un "professionista" avrebbe trovato le risorse che servivano e tutto sarebbe andato bene. Nessuno li aveva avvisati che sarebbero successi dei "casini": che gli equilibri interni si sarebbero sfaldati, perlomeno destabilizzati; che le persone fuori avrebbero iniziato a chiedere di osservare l’organizzazione da dentro; che sarebbero stati "obbligati" a spendere altri soldi, oltre a quelli per assumere il fundraiser; che avrebbero fatto fatica; ma soprattutto che avrebbero iniziato a cambiare "pelle". Ecco che se osserviamo la questione del fundraising e del fundraiser, anche dal punto di vista delle organizzazioni, il focus si sposta qui, perché per avere nel loro staff un bravo fundraiser, non basta che ne assumano uno, ma devono cambiare. Ed allora il nodo diventa cercare di rispondere ad altre domande: vogliono cambiare?  Cosa le spinge a farlo? Cosa vuol dire cambiare? Quindi, sì, in tutta franchezza, mi sono stancata di sentir solo parlare di principi e tecniche del fundraising, e "di chi è" e "cosa fa" il fundraiser. Se da un lato è giusto continuare a farlo, fondamentale, dall’altro però sta diventando necessario e sempre più urgente, anche per via della Riforma del Terzo Settore, iniziare a preoccuparsi di come "aiutare" le organizzazioni ad "avere" un fundraiser. È ora che lo sguardo vada anche altrove, verso le organizzazioni e i territori, i loro contesti in perenne trasformazione, verso le sperimentazioni "sociali" in atto, perché credo che solo da questa "nuova" prospettiva si possa veramente iniziare a lavorare per fare spazio al fundraising, e a una vera legittimazione del ruolo e della funzione del fundraiser.  

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