Tra gli aspetti di maggior interesse che caratterizzano la riforma del Terzo Settore si segnala l'art. 28 del nuovo codice, dettato in materia di responsabilità degli amministratori degli enti non profit: al fine di valutare gli eventuali profili di responsabilità in capo a tali soggetti, la norma, in sostanza, abbandona il vecchio parametro costituito dal rapporto di mandato, per avvicinarsi alla disciplina dettata per le società per azioni. Se in prima battuta la ratio del Legislatore può apparire condivisibile, tra le righe della disposizione normativa si intravvede un'insidia piuttosto seria: mentre infatti in epoca previgente alla riforma l'amministratore di un ente non profit rispondeva sotto il profilo civilistico secondo le tipiche regole del mandato, oggi la perimetrazione dei confini entro i quali può operare una sua responsabilità è estremamente difficile e quindi soggetta anche a possibili interpretazioni estensive. Il richiamato art. 28, invero, richiamando quanto prescritto dall'art. 2392 del codice civile apre la porta a concetti che se in ambito societario hanno una loro logica, nell'universo del Terzo Settore rischiano di mettere in grave difficoltà gran parte degli attuali amministratori di associazioni, cooperative sociali, aps, ecc. Costoro – precisa la norma – rispondono non soltanto verso i terzi ma anche nei confronti degli associati e dell'ente stesso – qualora si accerti che non hanno adempiuto i loro doveri “con la diligenza richiesta dalla natura dell'incarico e dalle loro specifiche competenze”. Sul punto appare doverosa una riflessione su quali dovrebbero essere le “specifiche competenze” richieste ad esempio all'amministratore di un'associazione sportiva dilettantistica oppure di un ente filantropico. Per non dire poi della “natura dell'incarico” di amministrare un ente non profit: espressione vaga che rischia di favorire forme di disimpegno nelle migliaia di persone che dedicano il proprio tempo (e a volte anche il proprio denaro) a favore di queste realtà.

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