Ma cosa è il fundraising di comunità? Ma come si distingue dal fundraising tradizionale? È un nuovo modo di fare fundraising?

Credo che il fundraising di comunità, o anche detto di prossimità, sia una forma territoriale, un nuovo modo di vivere il welfare, ma in generale i servizi alla comunità, anche quelli culturali e dell’ambiente, che si stanno sempre più affermando tra le piccole e medie organizzazioni negli ultimi anni.

Non è solo il reperimento delle risorse per la realizzazione delle attività dell’organizzazione, del perseguimento di mission e obiettivi, ma è un modo per stimolare la comunità a prendersi cura di se stessa, del proprio bene comune. Diventa uno strumento concreto per entrare in relazione e creare con-partecipazione e condivisione nei progetti che realizziamo.

Partiamo dalla vicinanza, dalla prossimità con le persone per attivare risorse non solo economiche ma umane, di tempo, beni servizi e competenze per nuove forme di organizzazione delle comunità che rispondano di più e meglio ai bisogni e ai desideri di coloro che ci vivono.

È un po’ come dire che il viaggio è più importante della meta. Non si tratta di far finta che i soldi non siano importanti, ma si tratta di spostare il focus dal denaro al valore che, anche con il denaro, si può e si deve generare. Il denaro è uno strumento, un indicatore, non è uno scopo, ma un mezzo per fare ciò che alle persone serve.

Diventa un modo nuovo di vivere il territorio, i servizi, di stare nelle relazioni. In termini pratici significa che il fundraising di prossimità sposta il focus sul capitale relazionale e sulle condizioni necessarie a livello organizzativo per farlo partire e sviluppare nel medio-lungo periodo. Elementi che nelle piccole e medie organizzazioni, a volte per mancanza d’informazione, sensibilità o piena consapevolezza dell’argomento, sono stati scarsamente curati.

Il fundraiser si trova quindi davanti a uno scenario nuovo, diverso da quello che spesso gli è stato prospettato: deve spesso creare un nuovo contesto, un nuovo ambiente sia a livello di governance, sia a livello operativo, capace di far "attecchire" il concetto del dono e quindi del fundraising che su questo agisce.

Per farlo necessariamente non può limitarsi all’utilizzo delle tecniche, ma sviluppare competenze trasversali senza le quali non riuscirà a interagire con donatori, istituzioni, volontari, consigli direttivi e altri enti o soggetti partner di progetto. Facciamo tutti fatica a fare cose nuove, siamo sempre stati abituati a un certo schema, cambiare è impegnativo. È proprio un processo della nostra mente e una modalità di prendere decisioni. Procediamo per schemi automatici, la nostra mente è "programmata" per salvare energia.

Quindi invertire il paradigma e la logica del vivere le relazioni e le organizzazioni rispetto a come è sempre stato fatto sinora, all’inizio crea più resistenze che entusiasmi.

Spesso le organizzazioni pensano di poter fare tutto da sole. Sono poche le realtà che praticano un’apertura vera e una condivisione di scambio con altri stakeholder per creare crescita. È ancora poco diffusa l’idea che quello che si deve fare in questo tempo è cercare, tutti insieme, di ingrandire la torta delle donazioni, anziché fare le fette più piccole.

Più si diffonde questo pensiero e si pratica la prossimità più ci sarà cultura e abitudine del dono, e noi fundraiser, con gioia, ci re-inventeremo, magari cominceremo a fare davvero il nostro mestiere. In questa logica il dono diventa lo strumento attraverso il quale poter attivare le risorse, il dono non è più solo un’opportunità di scambio, ma lo strumento che crea e riattiva un legame, un legame sociale.

È la concezione del dono del sociologo canadese J. Godbout. Si mette mano agli equilibri delle comunità dove non c’è più un beneficiario che ha bisogno e un donatore che lo aiuta, ma il donatore riceve da quello stesso gesto, fino ad essere uno scambio alla pari che crea relazione prima di tutto.

Se si potesse definire il fundraising di prossimità con due parole sarebbero: cura e felicità! Tutti, con più o meno successo, cerchiamo di essere felici e credo sia sempre più diffuso che per stare bene è indispensabile prendersi cura degli altri, dai famigliari, agli amici, dalle relazioni con le persone nella nostra città che hanno una qualche situazione di difficoltà, fino alla comunità tutta.

Siamo noi, acquisiamo conferme e consapevolezza dall’interazione con gli altri, abbiamo bisogno degli altri e quindi possiamo scegliere di prendercene cura. È così, più o meno inconsciamente, ma questo è ciò che accade, perché nessuno può essere felice da solo.  

 

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