“Se ognuno facesse la sua parte…”. Quante volte tutti noi abbiamo pronunciato tale frase, ma qual è la “parte” di ognuno? Ognuno ha una sua percezione, sia chi la deve eseguire, sia chi si aspetta la sua esecuzione. Queste percezioni non sempre convergono o coincidono.

Come ho commentato anche in precedenti post, il contesto socio-economico rende per varie ragioni le organizzazioni “nervose” e i processi operativi molto fluidi. Tutto ciò rende ancora più difficile definire con esattezza la “parte” (ovvero i compiti) di ognuno.

Senza voler entrare in dettagli, a volte anche noiosi, riguardo alla definizione del ruolo, proverei a presentare uno schema semplice che ci aiuti a declinare i compiti riferiti ad un ruolo o ad una posizione organizzativa.

Il disallineamento delle percezioni su quale sia la “parte” è riscontrabile su diversi livelli.

Il primo livello è rappresentato, nella figura successiva, dal flusso del processo input – trasformazione - output - outcome che comprende le attività riferite in senso stretto al fare, al produrre connesse ad una posizione organizzativa o ad un processo operativo (a seconda del campo di applicazione dello schema).

In altre parole si tratta dei compiti che vengono attribuiti ad una persona affinché produca un output e un outcome (sulla distinzione vedi il mio precedente post “Alla ricerca della mission perduta”). Solitamente questo piano non presenta molte criticità, soprattutto se si tratta di un processo consolidato su cui si è maturata nel tempo una significativa esperienza.

Il secondo livello di analisi, che riguarda i livelli di autonomia connessi allo svolgere delle attività, può essere più problematico. La fluidità organizzativa implica un alto livello di variabilità nello svolgimento dei processi operativi, che a sua volta richiede la continua presa di piccole o grandi decisioni nell’adattare un know how, ancorché consolidato, ad una nuova situazione. Quanta autonomia ha un operatore nel decidere obiettivi, strumenti, tempi, informazioni da trasmettere e diffondere, ecc.? Su questo aspetto i modelli organizzativi spesso registrano significative carenze sia nel definire i livelli di autonomia decisionale, sia nel comunicarle chiaramente in modo che tutti gli interessati regolino le reciproche aspettative.

Il terzo è infine rappresentato dai collegamenti di tali attività con il resto del sistema organizzativo (interno ed esterno) entro il quale il processo ha luogo. Come possiamo vedere nello schema, il processo che trasforma input in output si svolge all’interno di un sistema “operativo” molto più articolato. Perché il processo funzioni bene è necessario che abbiano luogo una serie di altre attività, prima durante e dopo, sincroniche e asincroniche. Per essere più precisi, tali attività non si riferiscono a processi aziendali più ampi e trasversali, ma ad azioni connesse allo svolgimento del processo.

Quando, ad esempio, parliamo di “gestione mezzi e attrezzature” non ci riferiamo a qualche funzione organizzativa assegnata specificatamente a qualche addetto, ma alle attività che sono funzionali al corretto espletamento del proprio compito (il fare e il produrre del primo livello). Insomma, io che faccio il formatore mi devo preoccupare che il proiettore sia funzionante, che ci siano la prolunga, gli adattatori giusti, i pennarelli, ecc. o devo dare per scontato che se ne debba occupare qualcuno altro? L’operatore che, per fare la sua “parte”, necessita delle informazioni deve aspettare che gli vengano fornite o deve darsi da fare per procurarsele?

Non esiste una risposta facile e unica. Certamente è qui che entrano in gioco le percezioni, le quali possono essere del tutto disallineate: ad esempio quelle dell’operatore, quando dice “C’è una disorganizzazione totale, non abbiamo alcun supporto, non possiamo lavorare così” e quelle del coordinatore/direttore, quando afferma “Purtroppo manca la motivazione, non prendono iniziative, si aspettano la pappa pronta”.

Schema per l’analisi dei ruoli

A complicare o a facilitare le cose c’è anche l’outcome. Molto dipende da quale sia l’orientamento dell’operatore nel considerare la propria “mission” professionale, se il solo output o anche l’outcome. Più ci si avvicina ad una visione comprensiva dell’outcome, più si concepisce il proprio compito a 360 gradi e quindi ci si prende cura di tutti gli aspetti che assicurano una maggiore efficacia, sia nei confronti dell’output che dell’outcome.

Poiché l’outcome del servizio è strettamente collegato alla mission aziendale, oggi di fronte alle sfide del nuovo welfare più che mai le organizzazioni non profit hanno bisogno di ridefinire la propria mission, di costruire attorno ad essa la propria governance organizzativa, di ridisegnare processi operativi e di assegnare compiti e ruoli.

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