Sono numerose le organizzazioni senza finalità di lucro che considerano la raccolta fondi un male necessario. Il ragionamento è semplice: abbiamo bisogno di soldi per erogare i nostri servizi, la pubblica amministrazione non ce li dà o non ce ne dà abbastanza, gli introiti dalle attività commerciali non sono sufficienti, quindi non ci resta che cercare qualcuno che, per spirito di liberalità, ci aiuti a portare avanti i nostri progetti.

Questo approccio in cui l’ente è al centro, i soldi sono il fine e i donatori il mezzo è, a mio avviso, la principale ragione per cui il lavoro del fundraiser è uno dei lavori a più alto tasso di burn out; l’atteggiamento degli enti oscilla dal marketing più spregiudicato all’accattonaggio più umiliante; le risorse che effettivamente vengono raccolte sono una parte infinitesimale di quanto potrebbe essere altrimenti mobilitato.

Esso infatti impedisce di cogliere la vera essenza del dono e genera nel comportamento degli enti non profit degli errori macroscopici che impediscono loro di valorizzare al meglio le loro potenzialità. Attraverso il coordinamento della prima edizione del Master per promotori del dono, ho potuto constatare come, troppo spesso, gli enti nella gestione delle loro attività di raccolta fondi, facciano esattamente il contrario di quello che sarebbe ragionevole fare. In particolare sono emersi quelli che potremmo chiamare i 7 peccati capitali della raccolta fondi:

  1. Gli eventi come prima scelta;
  2. Chiedere tempo invece che soldi;
  3. Puntare su pubbliche amministrazioni, fondazioni e imprese;
  4. Concentrarsi sui nuovi donatori;
  5. Temere la concorrenza;
  6. Fare della raccolta fondi una funzione separata;
  7. Porsi al centro.

 

Gli eventi come prima scelta

Se chiedete ad una persona qualsiasi di immaginare una strategia per raccogliere donazioni, nove volte su dieci, questa vi proporrà l’organizzazione di un evento. Ora gli eventi in termini di raccolta sono la modalità meno efficace. Per la loro gestione sono necessarie tante energie e, di norma, le risorse che vengono raccolte, al netto delle spese effettuate, sono molto ridotte. Molto più efficaci sono gli incontri personali coi potenziali donatori, ma questa è, di norma, l’ultima opzione che viene considerata.

Chiedere tempo invece che soldi

Le stesse persone che hanno oggettive difficoltà a chiedere una donazione in denaro, sembrano non avere problemi quando devono proporre ad una persona di dedicare il proprio tempo ad una qualche iniziativa. Questo approccio dimentica che, soprattutto nella nostra società, il bene più scarso non sono certo i soldi, ma proprio il tempo. Questo significa che molti sono convinti che sia più facile chiedere ad una persona di rinunciare alla sua risorsa più scarsa, il tempo, invece di proporgli di destinare alla nostra causa un bene che è sicuramente più diffuso come il denaro. Si tratta di un pensiero che è chiaramente illogico, ma che è nondimeno molto diffuso e finisce per tarpare le ali a tante organizzazioni.

Puntare su pubbliche amministrazioni, fondazioni e imprese

Se poi si domanda ad un ente di indicare i mercati su cui concentrare i propri sforzi per ottenere risorse è molto probabile che questi indicherà le pubbliche amministrazioni, le fondazioni e le imprese, dimenticando che le prime sono in una situazione di deficit cronico, le seconde sono molto poche e ormai sempre più interessate a gestire i propri progetti e le terze possono destinare ad iniziative d’utilità sociale risorse molto limitate. Basterebbe riflettere sul fatto che la ricchezza in Italia è principalmente concentrata nella mani delle persone fisiche per capire che è in questo ambito che è opportuno concentrare i propri sforzi, ma anche questa è una considerazione che raramente attira l’attenzione di chi opera nel terzo settore.

Concentrarsi sui nuovi donatori

Un altro errore molto diffuso è quello di concentrare le proprie energie nella ricerca di nuovi donatori, invece di occuparsi principalmente nella coltivazione delle proprie relazioni. Tutti gli studi mostrano chiaramente come l’acquisizione di un nuovo donatore sia, di norma, un costo superiore al valore della donazione stessa. Inoltre, attraverso la coltivazione delle relazioni, è possibile creare le condizioni per ottenere risorse potenzialmente molto importanti. Anche in questo caso si tratterebbe di applicare il mero buon senso, cosa che però si rivela molto più difficile di quello che si potrebbe pensare.

Temere la concorrenza

Proprio l’esigenza di concentrarsi sul proprio patrimonio relazionale rende i rischi della concorrenza poco rilevanti. Soprattutto per le organizzazioni medio-piccole che possono quindi sviluppare una relazione personale coi propri potenziali donatori, il rischio di competizione è limitato. Per questi enti ciò che è più importante è che i potenziali donatori inizino a considerare il dono come un’opzione reale e concreta per perseguire i loro valori. L’esigenza non dovrebbe essere quella di spartirsi la torta, ma di prepararne una più grande e per far ciò è necessario aumentare il numero dei pasticcieri. Un esempio potrà chiarire un concetto che può risultare, a prima vista, contro-intuitivo. Pensiamo a quella che si considera l’opportunità più interessante per le donazioni: i lasciti e i legati testamentari. In questo caso apparirà evidente come il problema principale è che in Italia i più non fanno testamento, la vera sfida non è dunque convincere il donante a lasciare un lascito ad un ente piuttosto che un altro, ma di predisporre un testamento e per ottenere questo risultato è importante che un numero crescente di organizzazioni ne promuova l’importanza.

Fare della raccolta fondi una funzione separata

Un altro grave errore consiste nel considerare la raccolta fondi una funzione specifica, sostanzialmente separata dal resto dell’organizzazione, il cui scopo è quello di portare soldi a casa. In realtà, il ruolo del promotore del dono è, invece, da un lato, quello di fare in modo che in tutte le attività e i servizi promossi dall’ente si tengano conto delle esigenze specifiche delle diverse categorie di donatori e, dall’altro, aiutare tutti coloro che operano nell’organizzazione a valorizzare il loro patrimonio relazionale trasformandoli, di fatto, in fundraiser. In pratica, si tratta di trasformare il dono da un’attività strumentale che potrebbe essere eliminata qualora si trovassero altre entrate, in una parte fondamentale dell’identità aziendale, in quanto modalità particolarmente efficace per perseguire la missione dell’ente indipendentemente dalle risorse che verranno mobilitate.

Porsi al centro

Infine l’ultimo peccato, che è quello più profondamente radicato negli enti non profit, consiste nell’autoreferenzialità, la quale si manifesta nel considerare la propria organizzazione quale fosse l’ombelico del mondo. Nella richieste è infatti comune affermare “aiutaci ad aiutare”, implicando che il vero soggetto attivo è l’organizzazione. Bisogna invece imparare a mettere al centro, da un lato, il beneficiario ultimo del servizio e, dall’altro, il donatore, il quale non deve essere ringraziato perché ci ha permesso di fare tanto, ma perché ha fatto tanto. Non è l’ente che, per esempio, ha aiutato i bambini col contributo del donatore, è il donatore che, tramite l’ente, ha aiutato i bambini. Sembra un discorso di lana caprina, ma in realtà, attraverso l’interiorizzazione di un simile approccio è possibile cambiare radicalmente il rapporto con il donatore e pone le condizioni affinché quest’ultimo possa vivere a pieno le gratificazioni morali e ideali collegabili al suo gesto, con le conseguenze positive in termini di nuovi contributi che è facile immaginare.

Proprio perché questi errori sono profondamente radicati nella cultura di gran parte degli enti non profit del nostro Paese, diventa fondamentale dotarsi di professionisti che assistano l’ente nei suoi sforzi per liberarsene e affermare pienamente le proprie potenzialità. Un master come quello promosso dall’Università dell’Insubria e dalla Fondazione Comasca in collaborazione con il Consorzio Contigua rappresenta un’opportunità più unica che rara per dotarsi di tali competenze e trovare nuove energie e slancio, non solo per perseguire la propria missione, ma anche e soprattutto per umanizzare una società che, oggi più che mai, rischia di disgregarsi e di autodistruggersi.

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