Articolo di Andrea Bontempelli.

Alcuni anni fa, al momento della sua nomina a Vice Direttrice Generale di Banca d’Italia, Anna Maria Tarantola, in una delle sue prime interviste dichiarò, al quotidiano economico Il Sole 24 Ore: “C’è sempre stata una grande organizzazione, un’organizzazione ferrea di ruoli e di compiti, tra me, mio marito e le bambine. Un grande merito spetta a mio marito e ai miei genitori. Sono loro che mi hanno permesso di avere sempre una grandissima serenità sul lavoro, di non avere l’ansia di lasciare la famiglia e di non trovarmi mai di fronte all’aut aut tra carriera e vita personale. Un dilemma che, purtroppo, per molte donne, ancora oggi si presenta, ad un certo punto del loro percorso professionale, in modo drastico. Ecco, io penso che il sistema dovrebbe permettere ad una donna di non dover affrontare scelte secche”.

Credo che da questa affermazione emerga, chiaramente, come il tema della conciliazione, anche se a me piace di più chiamarla armonizzazione, tra i tempi del lavoro e della famiglia sia ancora di estrema attualità.

Nel marzo del 2000, a Lisbona, i Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea lanciarono l’obiettivo di fare dell’Europa “l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica e sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale”, obiettivo che si sarebbe dovuto raggiungere entro il 2010. Le misure che si sono messe in atto per raggiungere questo obiettivo presero il nome di “Strategia di Lisbona”. Nel corso degli anni, questo macro obiettivo fu declinato in svariate modalità, alcune delle quali fecero specifico riferimento agli orientamenti per la crescita e l’occupazione. Tra questi orientamenti, spiccava quello che si prefiggeva di “promuovere un approccio al lavoro basato sul ciclo di vita” e tra gli obiettivi concreti quello che definiva un tasso di occupazione femminile del 60%, da raggiungere entro del 2010.

L’ultimo rapporto di European Trade Union Institute (ETUI) sottolinea come, tra i Paesi dell’Unione Europea, l’Italia, con un divario occupazionale di genere al 18%, sia seconda solo a Malta (24,5) e subito seguita dalla Grecia (17,7).

I Paesi in cui il divario di genere è più vicino allo zero sono Lituania, Svezia, Lettonia e Finlandia. Quelli in cui questo divario è più ampio hanno anche i tassi di occupazione più bassi per le donne.

Sicuramente gli Stati dovrebbero fare molto di più per far diminuire questo gap e incentivare l’occupazione femminile. Si pensi, solamente, a quante famiglie restino escluse oggi dall’accesso agli asili nido e a quanto sarebbe importante che le tariffe, in questo settore, fossero notevolmente più basse.

Ma l’interrogativo sul quale vogliamo interrogarci in questa sede è il seguente: cosa possono fare le imprese in generale e le organizzazioni non profit in particolare per favorire l’occupazione femminile?

Ho avuto modo di conoscere da vicino e apprezzare il Terzo Settore solo da pochi anni. La mia esperienza lavorativa precedente è stata nel settore bancario, sia pure in quello del credito cooperativo, sicuramente molto più attento ad alcune tematiche. Con piacere, quindi, nel corso dei miei viaggi, ho potuto constatare di persona come il tasso di occupazione femminile nel non profit sia notevolmente più ampio della media del sistema economico e, particolare ancora più rilevante, i ruoli di vertice (tipicamente Presidenze e Direzioni), siano occupati molto spesso da donne. Mi sono interrogato molto sul perché di questa tipicità del Terzo Settore.

Mi sono dato due risposte. Una più “ottimistica” mi fa credere che in questo settore, ad occupazione prevalentemente femminile, vi sia più attenzione a queste tematiche e che in queste imprese si dia più spazio a un’organizzazione dei tempi di lavoro e ad azioni che abbiano l’obiettivo, magari non dichiarato, ma praticato quotidianamente, di favorire l’armonizzazione tra la sfera lavorativa e quella familiare e, anche, ed è questo l’obiettivo che mi sta più a cuore, tra il lavoro e i percorsi di carriera.

La risposta più “pessimistica” o più “cattiva”, che attiene all’esistenza ai vertici delle imprese non profit soprattutto di donne, mi verrebbe da cercarla nel fatto che tali organizzazioni siano, nell’immaginario collettivo, meno “prestigiose” e che garantiscano retribuzioni inferiore, a volte in maniera significativa a quelle profit; forse è per questo che gli uomini le frequentano poco?

Il mio idealismo e la mia fiducia nel genere umano mi portano a pensare che sia vera la prima ipotesi….

Il tasso di occupazione femminile, in costante crescita in Italia, ma ancora sotto al 50%, quindi ben lontano dall’obiettivo del 60% che ci si era dati nel 2000, purtroppo mi fa peraltro ritenere che per molte donne il problema non sia quello rappresentato dalla dottoressa Tarantola, cioè conciliare aspirazione di carriera e carichi familiari, ma, più semplicemente e ancora una volta, quello tra vita familiare e lavoro.

Dal quadro qui rappresentato sembra emergere, conseguentemente, come l’armonizzazione tra le due sfere, lavorativa e familiare, debba sempre più divenire, all’interno delle aziende, uno strumento di gestione delle risorse umane. E’ significativo, peraltro, come la stessa Tarantola non faccia minimamente accenno, nella sua storia di donna con una significativa crescita professionale, a politiche messe in atto da Banca d’Italia, ma al supporto ricevuto dalla sua famiglia.

Certo, è sicuramente vero come, a tutt’oggi, uno dei pilastri delle politiche conciliative sia rappresentato dall’organizzazione della famiglia e dalla presenza di nonni in salute.

Come si diceva in precedenza, è di rilievo il ruolo propositivo che l’ente pubblico, nelle sue diverse articolazioni, è chiamato a svolgere anche in questo campo. Da ricordare, in tale contesto, l’articolo 9 della legge 53/2000, recentemente modificato, che prevede degli incentivi economici riconosciuti alle imprese che introducano, nella propria organizzazione, degli strumenti innovativi volti a favorire l’armonizzazione dei tempi lavorativi e familiari.

Misura significativa è quella del congedo parentale per i padri, anche se, purtroppo, in Italia, il numero dei maschi che ne usufruisce, sia pure in costante crescita, sia ancora molto basso (poco più di 10.000 all’anno). Rinunciare al 70% dello stipendio non è una scelta facile e se si considera come il gap salariare di genere sia ancora molto elevato, un uomo non è incentivato ad usufruire di questa misura. E si ritorna, conseguentemente, sul ruolo che l’Ente Pubblico è chiamato a svolgere.

Incide, peraltro, anche un’altra motivazione secondo me. Si è ancora legati, soprattutto nelle piccole-medie aziende, al concetto che solo chi dedica tutta la giornata al lavoro possa avere dei percorsi di vita facilitati. Studi recenti dimostrano, invece, come quest’assioma non sia corretto e che i Paesi, come quelli dell’Europa settentrionale, dove è presente una maggiore condivisione dei carichi familiari, stiano sul mercato con risultati maggiori.

E’ ancora, purtroppo, presente lo stereotipo che la conciliazione sia una “cosa di donne”, quando, invece, deve assolutamente essere vista a 360°, come una questione organizzativa, che coinvolge donne e uomini, madri e padri.

E’ molto attuale l’immagine di uomo come bread – winner, di chi, cioè, “porti in casa il pane” (concetto sviluppato dal sociologo statunitense Talcott Parsons. 1902 – 1979).

Sono fermamente convinto che si debba uscire al più presto dalla facile equazione conciliazione=stop ai percorsi di carriera. E’ nell’interesse stesso delle organizzazioni che ciò non avvenga, perché si tradurrebbe in una mancata adeguata valorizzazione dei “talenti” presenti al loro interno. Quando si parla di armonizzazione dei tempi di lavoro e di vita, il pensiero corre immediatamente alle necessità di cura dei figli, ma non dobbiamo assolutamente dimenticare quelle derivanti dal doversi prendere cura degli anziani, anche alla luce della costante crescita della vita media delle persone e del conseguente aumento di patologie invalidanti, quali il morbo di Alzheimer.

Dicevamo del ruolo che deve assumere l’Ente Pubblico. Nell’ambito del Piano degli interventi in materia di politiche familiari, approvato nel settembre del 2004 e costantemente oggetto di modifiche, la Provincia Autonoma di Trento ha introdotto il progetto denominato Audit Famiglia e Lavoro”, un processo di management adottato su base volontaria dalle organizzazioni che intendano certificare il proprio impegno per il miglioramento della conciliazione lavoro-famiglia.

Ad oggi sono 169 le aziende certificate Family Audit, di molte Regioni italiane. E’ uno standard che innesca un ciclo virtuoso di miglioramento continuo e che offre la possibilità di entrare in un network di organizzazioni che mirano a creare ambiti di lavoro eccellenti.

Personalmente, consiglio questa certificazione anche alle realtà che abbiano già introdotto al loro interno delle misure conciliative, in quanto consente di sistematizzarle e portarle a sistema, non lasciandole alla buona volontà di una classe dirigente illuminata. Ovviamente, è ancora maggiormente consigliato alle imprese che intendano avviare i primi passi in questo ambito.

In conclusione, credo che l’attenzione alle tematiche conciliative chiami direttamente in causa il concetto di responsabilità sociale d’impresa. Se, infatti, tale responsabilità si può definire come “il gestire un’azienda in maniera tale da soddisfare le aspettative etiche, sociali, legali e commerciali che la società ha nei confronti delle aziende stesse”, si può ben comprendere come le misure organizzative che favoriscano l’armonizzazione tra il lavoro e la vita personale e tra la vita familiare e le prospettive di carrriera e che rispettino l’ottica di genere, soddisfino in pieno queste aspettative.

E chi più delle organizzazioni non profit ha a cuore la responsabilità sociale d’impresa?

 

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