In passato era un ossimoro parlare di lavoro in carcere, ma negli ultimi anni sono aumentate le esperienze di socializzazione al lavoro, di creazione di prerequisiti lavorativi e di vero e proprio inserimento lavorativo.

Questo interessante ponte professionale tra il mondo economico fuori e dentro il sistema carcerario è co-costruito da Realtà Non Profit, ma anche da Aziende Profit, che riconoscono nel valore della solidarietà un requisito di credibilità verso il cliente. Oggi vi presentiamo due testimonianze di questo approccio.

Matteo Ballarin, presidente e ceo di Europe Energy (titolare del brand WITHU) descrive cosi il progetto di recupero che coinvolge i detenuti del carcere di Bollate con i quali l'azienda collabora da un anno e mezzo e a cui oggi affida mansioni amministrative e di gestione dei clienti: “Siamo innamorati di questo progetto che crediamo importante ma di cui fino ad oggi abbiamo parlato sempre molto poco. E' un valore per la nostra azienda e un’importante opportunità di recupero professionale perle persone coinvolte”. Oggi dodici persone quotidianamente s’interfacciano con i clienti dell'azienda dando un primo livello di assistenza per poi arrivare ad occuparsi di gestire alcuni controlli sui pagamenti e di verificare i dati per le stipule dei contratti.  L'azienda è soddisfatta dei lavoratori, anche grazie a piccoli test di gradimento che ha messo in campo per mantenere il focus sia sulla prestazione lavorativa solidale che sulla soddisfazione del cliente.
I detenuti gestiscono tra le 8.000 e le 12.000 chiamate mensili e i test di controllo qualità sul servizio fatti sui nostri clienti hanno dato una valutazione tra l’8 e il 9.

 

“Sostenendo questi progetti vogliamo ancora una volta sottolineare che la detenzione debba necessariamente avere un fine rieducativo, così come sancito dalla nostra Costituzione. Il carcere non può e non deve essere solo il luogo in cui scontare una pena, quelle quattro mura dovrebbero rappresentare anche il punto di partenza per una nuova vita. E questo cambiamento può realizzarsi concretamente attraverso il lavoro: dà dignità, ma dà anche motivazioni e soddisfazioni per ripartire su nuove basi” ha dichiarato Carlo Borgomeo, presidente della Fondazione CON IL SUD che con il Bando “E vado a lavorare” ha finanziato 8 progetti per il reinserimento socio-lavorativo dei detenuti nelle regioni del Mezzogiorno. Reinventarsi pasticceri, fornai, operatori ecologici, sarti. Apprendere un mestiere e, magari, trovare anche un impiego stabile è la prospettiva dell'iniziativa, alla seconda edizione, promossa nell’ottica di affermare il principio del fine rieducativo della pena e con l’obiettivo di dare una reale “seconda possibilità” alle persone che si trovano in regime di detenzione ordinario e/o in regime alternativo alla detenzione. Gli 8 progetti selezionati coinvolgeranno 273 detenuti (tra cui minori, LGBT, pazienti psichiatrici) in 14 diversi istituti penitenziari e 3 carceri minorili del Sud Italia.

 

Il contesto
L’articolo 27 della Costituzione italiana sancisce il principio del ‘finalismo rieducativo della pena’, inteso come creazione dei presupposti necessari a favorire il reinserimento del condannato nella comunità, eliminando o riducendo il pericolo che, una volta in libertà, possa commettere nuovi reati.
La legge di riforma dell’ordinamento penitenziario n.354/75, e le successive modifiche, hanno dato attuazione a tale principio costituzionale, individuando e disciplinando norme, strumenti e modalità per garantire l’effettivo reinserimento sociale e lavorativo dei condannati.
La situazione attuale nelle carceri italiane, ben fotografata dall’Associazione Antigone nel XIV Rapporto sulle condizioni di detenzione, è ancora lontana dal garantire ai condannati un adeguato ed efficace percorso di integrazione sociale e lavorativa.
Ad oggi, il lavoro ha sofferto nella prassi di una carenza di effettività risultando solo parzialmente efficace. Se da un lato il numero dei detenuti lavoratori è leggermente cresciuto negli anni – passando dai 10.902 (30,74%) del 1991, ai 18.404 (31,95%) del 2017 – dall’altro oltre l’85% dei lavoratori è alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria svolgendo spesso mansioni che non richiedono competenze specifiche e con elevate turnazioni (per permettere a più persone di lavorare). Al Sud tale situazione è ancor più accentuata: solo il 3,7% dei detenuti lavora per soggetti privati esterni.

In conclusione, rispetto alla possibilità di formarsi e di lavorare in carcere vi sono ancora elevate possibilità di miglioramento – a partire da un maggior impegno da parte di tutti gli attori coinvolti – ma anche ostacoli da superare per poter efficacemente favorire un reinserimento dei detenuti ed evitare un aumento del rischio recidiva.

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