Non ci si aspetta un quadro roseo ogni volta che si attende l'aggiornamento dei dati Istat sulla situazione occupazionale del nostro Paese, ma non ci si aspetta neppure che nel 2021 il crollo dell'occupazione sia quasi esclusivamente al femminile: i lavoratori scendono di 101 mila unità, di queste 99 mila sono donne. Due mila sono uomini.

Nonostante il blocco di licenziamenti posto ad argine del tanto attesto quanto catastrofico calo dato dall'incisività della pandemia, e nonostante la timida ripresa registratasi tra luglio e novembre scorsi, l'occupazione torna a calare. Il tasso di occupazione delle donne a dicembre cala di 0,5 punti e cresce quello di inattività (+0,4 punti), per gli uomini al contrario la stabilità dell’occupazione si associa al calo dell’inattività (-0,1 punti). In generale, c’è un forte aumento dell’inattività ma solo per la fascia dei età giovanile e per quella centrale. Anche nel confronto con con lo scorso anno la prevalenza è femminile: si perdono in totale 444 mila unità e gli inattivi crescono a 482 mila unità. Di questi le donne passano da 9,842 milioni del dicembre 2019 a  9,530 milioni a dicembre 2020, mentre gli uomini passano da 13,441 milioni a 13,309. In sostanza sono 312 mila donne a dispetto di 132 mila uomini a perdere il lavoro. 

Che la pandemia abbia notevolmente amplificato le disuguaglianze sociali è oramai un dato più che evidente. Resta da interrogarsi sulle cause che portano ancora la nostra società ad accusare una così elevata disparità di genere nell'ambito lavorativo. Sicuramente una delle ragioni legate a quella che – più che definirla “fragilità del lavoro femminile” - definiremmo “fragilità sociale”, è che la maggior parte dei settori in cui le donne sono occupate, sono anche quelli più vulnerabili e più colpiti dalla pandemia. In primis tra tutti il Terzo settore di cui il 70% è composto da donne, ¾ degli occupati nel Non Profit sono donne. Il settore dei servizi, in particolare dei servizi alla persona è anche quello in  cui si trova il maggior numero dei lavori precari o per i quali è possibile licenziare (a cominciare dal lavoro domestico).

Un altro dato rilevante, frutto delle conseguenze dell'epidemia e delle misure adottate per contrastarla, è quello sulla partecipazione al mercato del lavoro, scesa dal 65,1 per cento di febbraio al 64,3 di marzo.  Il calo della partecipazione, in particolare di quella femminile, è senz’altro dovuto anche ai provvedimenti di chiusura delle scuole. In una società che accusa ancora un forte retaggio patriarcale, in cui non solo la cura dei figli spetta principalmente alla donna, ma il reddito percepito dalle madri è tipicamente inferiore rispetto a quello dei padri, la preclusione o la limitazione della regolare continuazione dell’attività lavorativa da parte delle donne sembra quasi essere un atto logico. Inoltre, anche nel caso della migliore delle implementazioni di smart working, le donne italiane hanno visto aumentare il loro lavoro, che, non solo si è sovrapposto agli impieghi domestici, ma ha annullato la separazione spazio temporale tra vita domestica e vita lavorativa.

Per concludere, di fatto, l’emergenza Covid non ha fatto altro che amplificare delle disuguaglianze già insite nella nostra struttura sociale. Il dato che il 99% dei lavoratori in meno di dicembre sia donna, non è altro che una conferma di un andamento che necessita di essere cambiato. Il termine “resilienza”, bistrattato e ormai impronunciabile, a cui presto si affiancherà quello di “transizione”, non può essere l'augurio che continuiamo a farci. L'obiettivo che invece dobbiamo avere come società civile, è quello che non siano solo degli arginamenti a livello politico a essere motore di  cambiamento, ma che piuttosto parta da ognuno il desiderio di crescita culturale, di abbandono di ogni retaggio di disuguaglianza e disparità.

 

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