In opposizione alla buona notizia, che emerge dai dati Eurostat, sul superamento di produzione di energia da fonti rinnovabili a discapito di quella da fonti fossili, Greenpeace Italia e ReCommon lanciano una pubblicazione, che analizza, come, l'interesse di ENI per per la protezione delle foreste, sia solo un'operazione di greenwashing.

Nel 2020, come effetto della pandemia, che ha determinato una minore domanda di energia, per le misure di contenimento, in Europa le energie rinnovabili hanno superato per la prima volta i combustibili fossili nella produzione di elettricità. Non sempre, però, tutti i dati corrispondono a una trasparente narrazione della realtà, specie da parte dei maggiori produttori di energia derivata da fonti fossili. Il greenwashing è infatti un neologismo nato proprio per descrivere un “ecologismo di facciata”, ingannevole rispetto al reale impatto ambientale, per distogliere gli occhi dell'opinione pubblica dagli effetti ancora nefasti per l'ambiente. 

Il rapporto di Greenpeace e ReCommon, dal titolo “Cosa si nasconde dietro l’interesse di Eni per le foreste?” affronta il tema dei meccanismi cosiddetti di carbon emission offsetting (“compensazione” delle emissioni di carbonio). Il ricorso all’offsetting, adottato da Eni e altre multinazionali dei combustibili fossili, in estrema sintesi, farebbe sì che “per ogni emissione generata dalle attività dell’azienda, nel suo bilancio risulterà che si è evitata un’emissione altrove, o che una certa quantità di anidride carbonica è stata catturata dall’atmosfera”. 

Vi sono però diverse considerazioni che emergono dal rapporto e che mettono in evidenza l'incongruenza e inconsistenza di tale “impegno” da parte di Eni. La prima è che, al fine della suddetta compensazione, Eni non considera “emissione generata dalle attività dell’azienda” quella derivante dalla combustione degli idrocarburi che essa estrae, quanto piuttosto solo quella dovuta alle operazioni di estrazione, trasporto, ecc. direttamente svolte dall’azienda. 

Le diverse modalità di “compensazione”, dall'iniezione di CO2 attraverso il cosiddetto Carbon Capture and Storage, alla millantata “conservazione delle foreste”, non restano in piedi, ad esempio, davanti alla considerazione delle emissioni che rimangono nell'atmosfera per via delle operazioni. 
La credibilità degli schemi di compensazione risulta quindi compromessa dal fatto che si basano su un assunto impossibile da verificare: si presumono riduzioni di emissioni sulla base di un confronto con ciò che sarebbe accaduto se tali progetti non fossero stati realizzati. Stime aleatorie, che si rivelano di importanza fondamentale per tenere in vita ancora per decenni il modello dell’estrazione dei combustibili fossili.

«Acquistando crediti sul mercato del carbonio o investendo direttamente in presunti progetti di conservazione, aziende come Eni possono presentarsi come protettrici della biodiversità, nonostante le loro attività estrattive continuino a causare la distruzione degli ecosistemi su cui ricadono le loro concessioni, come per esempio nel Delta del Niger o in Mozambico», dichiara Alessandro Runci di ReCommon.

Che la resistenza a un reale cambiamento sia dovuta al sempreverde perpetrarsi di logiche, di profonda connotazione politica, più vicine al profitto che alla tutela del Pianeta, non è certamente una novità. È opportuno, però, tenere alta l'attenzione sui dati e sulle narrazioni che ci vengono propinate e continuare a contribuire nel migliore dei modi a una maggiore tutela dell'ambiente, perché un reale cambiamento in questo senso è possibile solo grazie all'impegno di tutti.

Vi invitiamo a leggere il report “Cosa si nasconde dietro l’interesse di Eni per le foreste” .

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