Bandi, formulari, rendicontazione, convegni, articoli di giornale… Sempre di più le organizzazioni ricevono richieste e tentano di “dar prova del proprio impatto”. Si tratta di un’evoluzione concettualmente sensata poiché sposta l’asticella da un’ottica di “fare” (realizzare attività con le risorse disponibili) a una di “far bene” (produrre cambiamenti positivi per i destinatari dell’intervento). Potremmo quindi dire che, in chiave aspirazionale, stiamo assistendo a un positivo passaggio: da un focus sull’accountability, fondamentale ma non necessariamente sufficiente, a uno sull’efficacia. 
Questo nobile intento è, tuttavia, ostacolato da una serie di barriere che oscurano il senso, lo scopo e i requisiti per fare valutazione. Tre punti ovviamente collegati tra loro che è fondamentale affrontare per rispondere davvero alle nostre mission e orientarci tra richieste (e offerte) di valutazione. 

Il senso: perché valutare l’impatto?

Troppo spesso la valutazione viene considerata in chiave rendicontativa, come forma di “controllo” rispetto all’operato dell’organizzazione e potenziale strumento sanzionatorio nelle mani dei finanziatori. Specularmente, gli enti non profit si trovano spesso ad approcciare la valutazione come un esercizio comunicativo, per dar conto e far emergere il proprio valore. Se è vero che una buona pratica valutativa può aiutare a rafforzare trasparenza e storytelling dell’ente, è fondamentale ricordare che il senso della valutazione risiede nel ricercare informazioni che ci permettano di capire se le nostre progettualità sono efficaci (raggiungono gli obiettivi attesi? Creano benefici? Fanno danni?) e come migliorarle. In quest’ottica, la valutazione parte dalla necessità di conoscere qualcosa che può aiutarci a far meglio: non quindi un esercizio tattico, che possiamo scegliere di attivare in maniera estemporanea, ma un ragionamento strategico che deve partire da una specifica necessità di comprendere qualcosa che ignoriamo o su cui abbiamo dei dubbi.   

Lo scopo: valutare sempre? 

Quando parliamo di valutazione di impatto in senso rigoroso, non quindi come esercizio di marketing o di mera compliance (il riferimento è, in questo caso, alla VIS introdotta dalla Riforma del Terzo Settore), la valutazione va inquadrata chiaramente per il suo scopo, evidenziandone in modo preciso obiettivi e limiti. La valutazione di impatto è qualcosa che può darci risposte molto utili ma molto specifiche – e che, quindi, è opportuna e fattibile solo in determinate condizioni. L’universalità con cui oggi si parla di “impatto” nel settore deriva da una confusione terminologica e metodologica, spesso motivata da fini commerciali, che tende a etichettare come “valutazione di impatto” tipologie di analisi differenti che non sono in realtà valutazioni di impatto. 

I requisiti: cosa serve?

La valutazione di impatto, invece, non può e non deve essere universale: questo significa che non può essere realizzata per ogni progetto, né dovrebbe. Al di là di un discorso molto prosaico, ma molto reale, di risorse scarse (chi copre i costi necessari per valutare? Quali competenze deve avere il valutatore?), una valutazione di impatto è necessaria quando…

  • … un progetto propone una soluzione innovativa che non è ancora stata attuata o testata a sufficienza, ponendo il dubbio che possa essere inefficace o addirittura danneggiare le persone. 
  • … un progetto viene realizzato su scala ridotta e servono evidenze scientifiche prima di poterlo riproporre e/o scalare.
  • … il progetto presenta una teoria del cambiamento ben precisa che descrive quali effetti si dovrebbero produrre per una data popolazione e in che modo.

Fonte: Filantropia 2.0, istruzioni per l’uso

Soffermandoci solo sul terzo punto, la valutazione di impatto ha senso ed è possibile solo e soltanto nel momento in cui è stata definita una “teoria” del cambiamento che si vuole produrre. Sarà tale modello a motivare e guidare la valutazione che potrà comprovare o smentire la nostra ipotesi. In questo senso, è necessario smettere di considerare la progettazione come “figlia di un dio minore” rispetto a una ben più vendibile e trendy valutazione di impatto, e rendersi conto del legame indissolubile che unisce il disegno dell’intervento (progettazione), la raccolta in itinere di informazioni sui risultati osservabili (monitoraggio), e la verifica di quali risultati siano attribuibili al progetto (valutazione di impatto). 

Per questo, durante il corso “Teoria del cambiamento e valutazione d'impatto”, risponderemo a domande quali: 

  • Che tipi di valutazione esistono, a cosa servono, cos’è una valutazione di impatto - e cosa non lo è? 
    • Questo ci permetterà tra l’altro di capire: chi ci parla di “valutazione” lo fa con cognizione di causa?
  • Cos’è una teoria del cambiamento, a cosa serve, come possiamo svilupparla?
    • Questo ci permetterà tra l’altro di capire: che differenza c’è tra una theory of change e un quadro logico basato sulla results chain? 
  • È sempre necessario valutare l’impatto? È sempre possibile? 
    • Questo ci permetterà tra l’altro di capire: che passi dobbiamo compiere per valutare l’impatto? Quando ha senso? Cosa possiamo fare quando non ha senso o non si può fare?

Viewer discretion is advised. Questo corso offre strumenti pratici, spunti concreti e scomode realtà. Chi è in cerca di soluzioni semplicistiche e universali per “vendere” impatto potrebbe rimanere deluso.

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